La volontà in se stessa è incosciente; è un cieco, irresistibile impeto; ciò che vuole è sempre la vita = volontà di vivere.
La vita è il manifestarsi di quel volere. La volontà è l’essenza del mondo, la cosa in sé, la sostanza interna. La vita, il mondo visibile è solamente lo specchio della volontà.
La volontà è libera, non conosce la necessità, invece il complesso dei fenomeni è necessario. Per quanto sia il fenomeno di una libera volontà, l’uomo non è libero. Ogni atto della persona va attribuito alla libera volontà.
A priori ognuno si ritiene libero, ma per esperienza e meditazione dell’esperienza a posteriori, riconosce che la sua condotta risulta determinata con necessità dall’incontro del carattere con i motivi. L’intelletto apprende le risoluzioni della volontà solo a posteriori. L’intelletto può solo rendere più chiara la natura dei motivi, ma non già determinare la volontà (inaccessibile, insondabile per esso).
L’affermazione di un libero arbitrio è strettamente connessa con il fatto di aver posto l’essenza dell’uomo in un’anima, la quale in origine sarebbe un essere conoscente, pensante, e solo in seguito anche un essere volitivo; mentre, la conoscenza è secondaria, la volontà è l’elemento primo e originario.
Nel corso dell’esperienza l’uomo apprende a conoscere se stesso, il proprio carattere (che è originario, individuale, “empirico”, costante, innato). Quel che l’uomo veramente vuole non lo possiamo modificare né con influenze esteriori né con ammonimenti. Con l’esperienza apprendiamo ciò che vogliamo e ciò che possiamo. La conoscenza il più compiuta possibile della nostra individualità ci indica tutte le sue forze e le sue debolezze: la misura e la direzione delle nostre capacità intellettive e corporee.
La volontà è priva di meta e di scopo. Aspirare è la sua unica essenza.
La compressione della volontà mediante un ostacolo si chiama dolore, l’appagamento felicità.
Ogni aspirare proviene da mancanza, insoddisfazione del proprio stato: essa è quindi dolore, finché non sia appagato, ma nessun appagamento è durevole, anzi non è che il principio di una nuova aspirazione, ecc.
Nell’umana esistenza si riflette l’intimo destino della volontà. L’individuo è gettato nell’infinito spazio e nell’infinito tempo, nel presente, la sua esistenza è un relativo quando e dove, non mai l’assoluto. Volere e aspirare è tutta l’essenza; inestinguibile sete. Ma la base di ogni volere è bisogno, mancanza, cioè dolore, a cui l’uomo è vincolato dall’origine, per natura. E la sua vita oscilla tra il dolore e la noia.
L’ansia per la conservazione dell’esistenza e la propagazione della specie riempiono tutta la sua vita.
La vita dei più è questa diurna battaglia per l’esistenza, con la certezza della sconfitta finale.
La noia, che sempre pronta a riempire ogni pausa lasciata dall’angoscia, subentra quando miseria e dolore concedono una tregua. –Per necessità si ricorre a un passatempo. Principio di socievolezza: gli uomini si cercano benché non si amino. Gli sforzi per blandire il dolore non servono a mutarne l’aspetto. Soddisfatto il bisogno, si ripresenta: come istinto sessuale, appassionato amore, gelosia, invidia, odio, paura, ambizione, avarizia, ecc.
Lo spirito umano non contento delle angosce, delle amarezze imposte dal mondo esterno, si crea per di più, in forma di mille e svariate superstizioni un mondo immaginario… dissipando tempo e forze. Demoni, dèi, santi ai quali tributare sacrifici, preghiere, templi, offerte, pellegrinaggi (è il fascino dell’illusione).
Sono un sintomo del doppio bisogno che spinge l’uomo: verso un aiuto e sostegno; verso un’occupazione e passatempo.
L’ottimismo non solo sembra un pensare assurdo, ma anche iniquo, un amaro scherno dei mali senza nome patiti dall’umanità. Questo mondo è il regno del caso e dell’errore.
Nella natura, in ogni grado della oggettivazione della volontà, necessariamente è una lotta perenne tra gli individui di tutte le specie: in ciò si esprime un intimo contrasto della volontà di vivere con se medesima.
La volontà è intera e indivisa in ciascuno dei suoi fenomeni.
Origine di tutte le lotte: l’ egoismo.
Ciascuno vuole avere tutto per sé, vuole dominare ed ogni cosa che gli si opponga, distruggere. Ogni individuo per quanto infinitamente piccolo, si fa centro dell’universo e considera la propria esistenza e il proprio benessere avanti a tutte le cose. Questa disposizione egoistica, propria di ogni cosa della natura, è la più terribile manifestazione dell’interno contrasto della volontà con se stessa. Questo egoismo si fonda per essenza sul fatto che la volontà si riflette in egual modo in un numero infinito di individui. La volontà è travagliata da un dissidio interiore, di cui la lotta fra gli individui è un’espressione. Quando la volontà di un individuo vuole affermarsi e irrompe nei confini dell’altrui volontà, con la distruzione o con la costrizione, si conosce come ingiustizia.
Modi: violenza, insidia.
Gradi: cannibalismo, assassinio, mutilazione, schiavitù, spoliazione.
Un’azione che non vada a ficcarsi nella volontà altrui negandola, non è ingiusta. Per esempio: negare aiuto in caso di necessità, contemplare con indifferenza chi muore di fame… è bensì crudele e perverso, ma non è un far torto. Si può dire con certezza che chi è capace di tanta insensibilità e durezza, sicuramente saprà compiere anche ogni ingiustizia, non appena può e vuole.
La volontà è libera e indipendente. Tutto ciò che il mondo contiene (male, tormento, limitazione), appartengono all’espressione di ciò che la volontà vuole. Qualunque destino tocchi l’uomo sarà sempre giustizia: dolore e colpa nel mondo si bilanciano. La responsabilità della costituzione del mondo grava su di essa.
Ma l’individuo ha una limitata cognizione delle cose; non vede l’essenza, ma solo i fenomeni: distinti, disgiunti, innumerevoli, contraddittori. Vede il dolore, il piacere; l’assassino e la vittima; chi vive nell’abbondanza, chi muore di fame. E si chiede: dov’è la compensazione? Vede la malvagità, la sofferenza del mondo, ma non riconosce che sono entrambe diverse facce del fenomeno dell’unica volontà. Le crede invece molto diverse e pensa con la malvagità di sottrarsi al dolore.
Colui che si eleva sulla conoscenza procedente dal principio di ragione, comprende l’eterna ingiustizia: intende che essendo la volontà l’in-sé di tutti i fenomeni, l’affanno inflitto o sofferto, la malvagità e il dolore colpiscono pur sempre l’una e identica sostanza. La cosa in sé, ingannata dalla conoscenza avvinta al suo servizio, se stessa disconosce in uno dei propri fenomeni cercando accresciuto benessere, mentre nell’altro produce dolore.
Buono – concetto relativo, indica la conformità di un oggetto con una qualsivoglia determinata aspirazione della volontà. Cattivo – l’opposto.
Colui che non appena ha l’occasione, e nessun potere esterno lo trattiene, è sempre inclinato a commettere ingiustizia.
La sua conoscenza tutta presa dal principio di ragione è prigioniera della individuazione, rimane attaccata alla distinzione tra la sua persona e le altre (=egoista).
Il carattere malvagio, vede gli altri come larve senza realtà; cerca il proprio benessere, indifferente a quello degli altri… eccessiva volontà.
La grande vivacità del volere è già in sé e per sé una perenne fonte di dolore… più spesso la volontà viene ostacolata che soddisfatta.
Ogni appagamento è illusorio, il bene conseguito non corrisponde mai al bene desiderato. La volontà non cessa la sua sete, muta forma ma rimane insanabile martirio.
Il malvagio gode dell’altrui dolore; il giusto si limita a non causare dolore. E’ un giusto che nell’affermazione della propria volontà non arriva a negare quella che si mostra in un altro individuo.
L’uomo buono d’animo non va considerato come un fenomeno di volontà, il quale sia all’origine più debole dell’uomo cattivo, bensì è la conoscenza che in lui governa il cieco impeto della volontà. Il generoso: il dolore che vede negli altri lo tocca quasi come il suo proprio; sente che la distinzione tra lui e gli altri non è così abissale, come invece pensa il malvagio; conosce che la volontà di vivere si estende fino agli animali e alla natura intera.
Guarire da questo errore illusorio (malvagità, egoismo) e praticare le opere dell’amore è tutt’uno. L’egoista resta concentrato sul singolo fenomeno individuale (paure, ansie, pericoli). Nell’animo virtuoso, la conoscenza si allarga a tutto ciò che vive. Il bene di ognuno è il suo bene.
Sulla via che conduce alla redenzione è chi sa ripetere a se stesso la formula del Veda: «questo sei tu!», dinanzi a ciascun essere con cui venga in contatto.
Oltrepassamento del principuim individuationis, attraverso la giustizia, la bontà d’animo: disinteressato amore per gli altri… (fino al sacrificio per gli altri). Bontà, amore, mosse dalla conoscenza dell’altrui dolore, fatto comprensibile attraverso il proprio. Il puro amore (caritas) è per sua natura compassione. Ogni amore che non sia compassione è egoismo. [Per Kant la compassione è debolezza e non virtù]
Dalla stessa sorgente da cui proviene ogni bontà, amore, virtù e nobiltà, si origina anche la negazione della volontà di vivere. L’uomo che non pone nessun divario tra se e gli altri, conosce il tutto, ne comprende l’essenza, e la trova involta in un continuo perire, in un vano aspirare, in intimo contrasto e in perenne dolore. Vede la sofferente umanità, la sofferente animalità e un mondo evanescente. Questa conoscenza diventa un q u i e t i v o della volontà: la volontà si distoglie dalla vita, ha orrore dei suoi piaceri nei quali riconosce l’affermazione della volontà. L’uomo perviene allo stato di volontaria rinuncia, della rassegnazione, della vera calma e della soppressione del volere.
La conoscenza della vanità e della amarezza della vita, si scorge in mezzo ai dolori sofferti, e vorremmo a ogni dolore sbarrare il cammino. Ma gli adescamenti della speranza, la lusinga del presente, la dolcezza dei piaceri, il benessere a cui partecipa la nostra persona in mezzo ai travagli di un mondo doloroso, in balia del caso e dell’errore, ci tirano nuovamente a sé.
Chi guarda oltre il principium individuationis, la sua volontà muta indirizzo, non afferma più la propria essenza ma la rinnega. E’ questo il passaggio dalla virtù all’ ascesi. Non gli basta più amare gli altri; sorge in lui un orrore per l’essere, per la volontà di vivere, per l’essenza del mondo riconosciuto come pieno di dolore. Si guarda di legare la sua volontà a una cosa qualsiasi.
Ogni sofferenza e offesa che a lui viene è accolta gioiosamente, come occasione di dare a se stesso la certezza che egli la volontà non afferma più. Sopporta il dolore con pazienza. Il fuoco dell’ira e della brama non tollera più. Mortifica la volontà nella sua forma visibile, il corpo: digiuno, autoflagellazione.
E la morte, invocata redenzione, è lietamente accolta.
La santità non proviene dalla conoscenza astratta, bensì dalla intuitiva, immediata conoscenza del mondo e della sua essenza. Questo modo di agire, solo per appagare la sua ragione viene spiegato con un dogma, che è indifferente per la sua sostanza.
La materia della storia del mondo è tutt’altra , anzi l’opposto. Non la rinuncia, bensì l’affermazione, in tutti gli individui della volontà di vivere. E qui al vertice supremo della sua oggettivazione, in questo affermarsi appare con chiarezza il suo dissidio interiore. Abbiamo: ora la prevalenza del singolo mediante l’intelligenza; ora la violenza della folla mediante massa; ora il potere del caso nel destino… ma sempre la caducità e nullità di tutti i desideri.
Filosoficamente parlando: il più alto, il più importante, il più significativo fenomeno che il mondo possa mostrare non è chi il mondo conquista ma chi il mondo supera. Solo in chi rinnega quell’avida volontà di vivere, la volontà appare libera ma la sua condotta è opposta a quella comune.
Amore del prossimo, carità, benevolenza, pazienza, sobrietà, continenza, tolleranza – esempi nell’etica cristiana e in quella hindu (astinenza dal cibo animale, donazione del patrimonio, profonda assoluta solitudine, ecc.).
[Come sappiamo già dal terzo libro] nella contemplazione del bello, gli istanti in cui sciolti dal legame con la volontà, che ci tengono sollevati sulla greve aria terrestre, sono i più beati che conosciamo. Da qui possiamo ricavare come deve essere felice la vita di un uomo in cui la volontà, non per brevi istanti, ma spenta del tutto per sempre (eccettuata l’ultima scintilla che regge il corpo). Dopo molte amare lotte niente viene più ad angustiarlo, a scuoterlo.
Le mille fila che ci tengono legati al mondo in forma di sete, paura, invidia, ira, che ci trascinano con assurdo dolore, sono tagliate. Sereno e sorridente guarda le finte immagini del mondo.
Finché il corpo, sussiste ancora la possibilità della volontà di vivere…. l’ ascesi: continua mortificazione della volontà.
I più arrivano alla negazione della volontà dopo che il destino ha inflitto loro un fortissimo dolore. Nell’eccesso del dolore si è mostrato il segreto ultimo della vita, cioè che dolore e malvagità, sofferenza e odio, il tormentato e il tormentatore sono in sé tutt’uno [diversi appaiono secondo il principio di ragione], fenomeno dell’unica volontà che oggettiva il dissidio con se stessa.
Si scorge il nulla di ogni aspirazione, niente viene più desiderato e il carattere si mostra dolce triste rassegnato (esempi di persone che dopo una vita di passioni abbandonano tutto). Ma degno di venerazione appare colui che soffre quando il suo dolore personale considera come un esempio del Tutto.
I miti e i dogmi che spiegano poi questa intuitiva e diretta conoscenza sono indifferenti.
Tuttavia… la sensibilità nella vita o nella rappresentazione poetica: si soffre sempre e sempre ci si lamenta, senza elevarsi alla rassegnazione e fortificarsi – si pensa di aver perduto insieme cielo e terra, conservando solo una lagrimosa sensibilità.
La negazione della volontà di vivere proviene dalla cognizione dell’intimo dissidio della volontà con se stessa e della sua essenziale v a n i t à, che si manifestano nei dolori di ogni essere vivente.
Vera salvezza e redenzione della vita e dal dolore non può essere immaginata senza completa negazione della volontà. Prima di giungere a quel punto, noi non siamo che quella volontà stessa, il cui fenomeno è un’esistenza evanescente, vano aspirare, è l’intero doloroso mondo della rappresentazione, al quale tutti in egual modo appartengono.
La negazione della volontà di vivere è l’unico atto di libertà possibile al fenomeno.
Il suicidio è invece un forte atto di affermazione della volontà stessa. La volontà di vivere nel suicida viene a trovarsi tanto compressa da non poter più svolgere la propria tendenza, allora prende una risoluzione conforme alla propria essenza: la volontà si afferma con la soppressione del proprio fenomeno. Appunto perché il suicida non può cessare di volere, cessa di vivere. Il suicidio arbitraria distruzione di un fenomeno isolato è azione in tutto vana e stolta.
La volontà di vivere è la cosa in sé, nessuna forza può distruggerla; essa può essere soppressa solo dalla conoscenza.
N. B. Schopenhauer, nega il libero arbitrio.
La libertà di negare la volontà non proviene direttamente dalla volontà, ma da un mutato modo di conoscere. Ciò accade quando il carattere è sottratto all’impero dei motivi. Difatti quando il principium individuationis è superato e le idee vengono direttamente conosciute, allora perdono ogni potere i motivi, perché il modo di conoscere si è offuscato.
Questa libertà non si può ottenere con deliberato proposito, essa viene da un più intimo rapporto del conoscere col volere, quindi anch’essa è un atto di libertà del volere. (Dalla Chiesa è chiamata grazia).
[Nocciolo del Cristianesimo: la dottrina del peccato originale con quella della redenzione (affermazione e negazione della volontà). Gesù come simbolo della negazione della volontà. Il cristianesimo moderno: uno scipito ottimismo.]
Lutero nel De servo arbitrio dichiara che la volontà non sia libera, ma all’origine soggetta all’inclinazione al male e che non già le opere ma la fede sola salva. Codesta fede non nasce da proposito ma dall’azione della grazia, senza il nostro concorso. Così anche in Agostino. Saremo salvati senza alcun merito personale.
Schopenhauer concorda e aggiunge: se conducessero alla beatitudine le opere, le quali emanano dai motivi e da meditato proposito, sarebbe allora la virtù null’altro che un sottile, metodico, lungimirante egoismo.
L’etica del sistema schopenhaueriano coincide con i dogmi veri dei cristiani e con le prescrizioni morali dei libri sacri indiani.
Allo stato in cui si trovano coloro che pervennero alla completa negazione della volontà, sono stati dati i nomi di estasi, rapimento, illuminazione, unione con Dio, ecc.
Ma tale stato non può chiamarsi conoscenza, perché non ha più le forme di soggetto e oggetto, inoltre è accessibile solo all’esperienza diretta e non è comunicabile.
Soppressa la volontà è soppresso anche il fenomeno, il mondo, davanti a noi resta il nulla.
In luogo dell’incessante, infinito affanno, agitato impulso, appare quella pace che sta più in alto di tutta la ragione.
Quel che rimane dopo la soppressione della volontà è, per coloro che della volontà sono pieni, il nulla. Ma per coloro in cui la volontà si è rinnegata, questo nostro universo reale, con tutti i suoi soli e le sue vie lattee, è – il nulla.