giovedì 3 dicembre 2009

Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione

LIBRO QUARTO Affermazione e negazione della volontà di vivere, dopo raggiunta la conoscenza di sé.

La volontà in se stessa è incosciente; è un cieco, irresistibile impeto; ciò che vuole è sempre la vita = volontà di vivere.
La vita è il manifestarsi di quel volere. La volontà è l’essenza del mondo, la cosa in sé, la sostanza interna. La vita, il mondo visibile è solamente lo specchio della volontà.
La volontà è libera, non conosce la necessità, invece il complesso dei fenomeni è necessario. Per quanto sia il fenomeno di una libera volontà, l’uomo non è libero. Ogni atto della persona va attribuito alla libera volontà.
A priori ognuno si ritiene libero, ma per esperienza e meditazione dell’esperienza a posteriori, riconosce che la sua condotta risulta determinata con necessità dall’incontro del carattere con i motivi. L’intelletto apprende le risoluzioni della volontà solo a posteriori. L’intelletto può solo rendere più chiara la natura dei motivi, ma non già determinare la volontà (inaccessibile, insondabile per esso).
L’affermazione di un libero arbitrio è strettamente connessa con il fatto di aver posto l’essenza dell’uomo in un’anima, la quale in origine sarebbe un essere conoscente, pensante, e solo in seguito anche un essere volitivo; mentre, la conoscenza è secondaria, la volontà è l’elemento primo e originario.
Nel corso dell’esperienza l’uomo apprende a conoscere se stesso, il proprio carattere (che è originario, individuale, “empirico”, costante, innato). Quel che l’uomo veramente vuole non lo possiamo modificare né con influenze esteriori né con ammonimenti. Con l’esperienza apprendiamo ciò che vogliamo e ciò che possiamo. La conoscenza il più compiuta possibile della nostra individualità ci indica tutte le sue forze e le sue debolezze: la misura e la direzione delle nostre capacità intellettive e corporee.

La volontà è priva di meta e di scopo. Aspirare è la sua unica essenza.
La compressione della volontà mediante un ostacolo si chiama dolore, l’appagamento felicità.
Ogni aspirare proviene da mancanza, insoddisfazione del proprio stato: essa è quindi dolore, finché non sia appagato, ma nessun appagamento è durevole, anzi non è che il principio di una nuova aspirazione, ecc.
LA VITA E’ DOLORE.
Nell’umana esistenza si riflette l’intimo destino della volontà. L’individuo è gettato nell’infinito spazio e nell’infinito tempo, nel presente, la sua esistenza è un relativo quando e dove, non mai l’assoluto. Volere e aspirare è tutta l’essenza; inestinguibile sete. Ma la base di ogni volere è bisogno, mancanza, cioè dolore, a cui l’uomo è vincolato dall’origine, per natura. E la sua vita oscilla tra il dolore e la noia.
L’ansia per la conservazione dell’esistenza e la propagazione della specie riempiono tutta la sua vita.
La vita dei più è questa diurna battaglia per l’esistenza, con la certezza della sconfitta finale.
La noia, che sempre pronta a riempire ogni pausa lasciata dall’angoscia, subentra quando miseria e dolore concedono una tregua. –Per necessità si ricorre a un passatempo. Principio di socievolezza: gli uomini si cercano benché non si amino. Gli sforzi per blandire il dolore non servono a mutarne l’aspetto. Soddisfatto il bisogno, si ripresenta: come istinto sessuale, appassionato amore, gelosia, invidia, odio, paura, ambizione, avarizia, ecc.

Lo spirito umano non contento delle angosce, delle amarezze imposte dal mondo esterno, si crea per di più, in forma di mille e svariate superstizioni un mondo immaginario… dissipando tempo e forze. Demoni, dèi, santi ai quali tributare sacrifici, preghiere, templi, offerte, pellegrinaggi (è il fascino dell’illusione).
Sono un sintomo del doppio bisogno che spinge l’uomo: verso un aiuto e sostegno; verso un’occupazione e passatempo.

L’ottimismo non solo sembra un pensare assurdo, ma anche iniquo, un amaro scherno dei mali senza nome patiti dall’umanità. Questo mondo è il regno del caso e dell’errore.

Nella natura, in ogni grado della oggettivazione della volontà, necessariamente è una lotta perenne tra gli individui di tutte le specie: in ciò si esprime un intimo contrasto della volontà di vivere con se medesima.
La volontà è intera e indivisa in ciascuno dei suoi fenomeni.

Origine di tutte le lotte: l’ egoismo.
Ciascuno vuole avere tutto per sé, vuole dominare ed ogni cosa che gli si opponga, distruggere. Ogni individuo per quanto infinitamente piccolo, si fa centro dell’universo e considera la propria esistenza e il proprio benessere avanti a tutte le cose. Questa disposizione egoistica, propria di ogni cosa della natura, è la più terribile manifestazione dell’interno contrasto della volontà con se stessa. Questo egoismo si fonda per essenza sul fatto che la volontà si riflette in egual modo in un numero infinito di individui. La volontà è travagliata da un dissidio interiore, di cui la lotta fra gli individui è un’espressione. Quando la volontà di un individuo vuole affermarsi e irrompe nei confini dell’altrui volontà, con la distruzione o con la costrizione, si conosce come ingiustizia.
Modi: violenza, insidia.
Gradi: cannibalismo, assassinio, mutilazione, schiavitù, spoliazione.

Un’azione che non vada a ficcarsi nella volontà altrui negandola, non è ingiusta. Per esempio: negare aiuto in caso di necessità, contemplare con indifferenza chi muore di fame… è bensì crudele e perverso, ma non è un far torto. Si può dire con certezza che chi è capace di tanta insensibilità e durezza, sicuramente saprà compiere anche ogni ingiustizia, non appena può e vuole.

La volontà è libera e indipendente. Tutto ciò che il mondo contiene (male, tormento, limitazione), appartengono all’espressione di ciò che la volontà vuole. Qualunque destino tocchi l’uomo sarà sempre giustizia: dolore e colpa nel mondo si bilanciano. La responsabilità della costituzione del mondo grava su di essa.
Ma l’individuo ha una limitata cognizione delle cose; non vede l’essenza, ma solo i fenomeni: distinti, disgiunti, innumerevoli, contraddittori. Vede il dolore, il piacere; l’assassino e la vittima; chi vive nell’abbondanza, chi muore di fame. E si chiede: dov’è la compensazione? Vede la malvagità, la sofferenza del mondo, ma non riconosce che sono entrambe diverse facce del fenomeno dell’unica volontà. Le crede invece molto diverse e pensa con la malvagità di sottrarsi al dolore.

Colui che si eleva sulla conoscenza procedente dal principio di ragione, comprende l’eterna ingiustizia: intende che essendo la volontà l’in-sé di tutti i fenomeni, l’affanno inflitto o sofferto, la malvagità e il dolore colpiscono pur sempre l’una e identica sostanza. La cosa in sé, ingannata dalla conoscenza avvinta al suo servizio, se stessa disconosce in uno dei propri fenomeni cercando accresciuto benessere, mentre nell’altro produce dolore.

Buono – concetto relativo, indica la conformità di un oggetto con una qualsivoglia determinata aspirazione della volontà. Cattivo – l’opposto.
Colui che non appena ha l’occasione, e nessun potere esterno lo trattiene, è sempre inclinato a commettere ingiustizia.
La sua conoscenza tutta presa dal principio di ragione è prigioniera della individuazione, rimane attaccata alla distinzione tra la sua persona e le altre (=egoista).
Il carattere malvagio, vede gli altri come larve senza realtà; cerca il proprio benessere, indifferente a quello degli altri… eccessiva volontà.
La grande vivacità del volere è già in sé e per sé una perenne fonte di dolore… più spesso la volontà viene ostacolata che soddisfatta.
Ogni appagamento è illusorio, il bene conseguito non corrisponde mai al bene desiderato. La volontà non cessa la sua sete, muta forma ma rimane insanabile martirio.
Il malvagio gode dell’altrui dolore; il giusto si limita a non causare dolore. E’ un giusto che nell’affermazione della propria volontà non arriva a negare quella che si mostra in un altro individuo.
L’uomo buono d’animo non va considerato come un fenomeno di volontà, il quale sia all’origine più debole dell’uomo cattivo, bensì è la conoscenza che in lui governa il cieco impeto della volontà. Il generoso: il dolore che vede negli altri lo tocca quasi come il suo proprio; sente che la distinzione tra lui e gli altri non è così abissale, come invece pensa il malvagio; conosce che la volontà di vivere si estende fino agli animali e alla natura intera.
Guarire da questo errore illusorio (malvagità, egoismo) e praticare le opere dell’amore è tutt’uno. L’egoista resta concentrato sul singolo fenomeno individuale (paure, ansie, pericoli). Nell’animo virtuoso, la conoscenza si allarga a tutto ciò che vive. Il bene di ognuno è il suo bene.
Sulla via che conduce alla redenzione è chi sa ripetere a se stesso la formula del Veda: «questo sei tu!», dinanzi a ciascun essere con cui venga in contatto.

Oltrepassamento del principuim individuationis, attraverso la giustizia, la bontà d’animo: disinteressato amore per gli altri… (fino al sacrificio per gli altri). Bontà, amore, mosse dalla conoscenza dell’altrui dolore, fatto comprensibile attraverso il proprio. Il puro amore (caritas) è per sua natura compassione. Ogni amore che non sia compassione è egoismo. [Per Kant la compassione è debolezza e non virtù]

Dalla stessa sorgente da cui proviene ogni bontà, amore, virtù e nobiltà, si origina anche la negazione della volontà di vivere. L’uomo che non pone nessun divario tra se e gli altri, conosce il tutto, ne comprende l’essenza, e la trova involta in un continuo perire, in un vano aspirare, in intimo contrasto e in perenne dolore. Vede la sofferente umanità, la sofferente animalità e un mondo evanescente. Questa conoscenza diventa un q u i e t i v o della volontà: la volontà si distoglie dalla vita, ha orrore dei suoi piaceri nei quali riconosce l’affermazione della volontà. L’uomo perviene allo stato di volontaria rinuncia, della rassegnazione, della vera calma e della soppressione del volere.
La conoscenza della vanità e della amarezza della vita, si scorge in mezzo ai dolori sofferti, e vorremmo a ogni dolore sbarrare il cammino. Ma gli adescamenti della speranza, la lusinga del presente, la dolcezza dei piaceri, il benessere a cui partecipa la nostra persona in mezzo ai travagli di un mondo doloroso, in balia del caso e dell’errore, ci tirano nuovamente a sé.
Chi guarda oltre il principium individuationis, la sua volontà muta indirizzo, non afferma più la propria essenza ma la rinnega. E’ questo il passaggio dalla virtù all’ ascesi. Non gli basta più amare gli altri; sorge in lui un orrore per l’essere, per la volontà di vivere, per l’essenza del mondo riconosciuto come pieno di dolore. Si guarda di legare la sua volontà a una cosa qualsiasi.
Ogni sofferenza e offesa che a lui viene è accolta gioiosamente, come occasione di dare a se stesso la certezza che egli la volontà non afferma più. Sopporta il dolore con pazienza. Il fuoco dell’ira e della brama non tollera più. Mortifica la volontà nella sua forma visibile, il corpo: digiuno, autoflagellazione.
E la morte, invocata redenzione, è lietamente accolta.
La santità non proviene dalla conoscenza astratta, bensì dalla intuitiva, immediata conoscenza del mondo e della sua essenza. Questo modo di agire, solo per appagare la sua ragione viene spiegato con un dogma, che è indifferente per la sua sostanza.

La materia della storia del mondo è tutt’altra , anzi l’opposto. Non la rinuncia, bensì l’affermazione, in tutti gli individui della volontà di vivere. E qui al vertice supremo della sua oggettivazione, in questo affermarsi appare con chiarezza il suo dissidio interiore. Abbiamo: ora la prevalenza del singolo mediante l’intelligenza; ora la violenza della folla mediante massa; ora il potere del caso nel destino… ma sempre la caducità e nullità di tutti i desideri.

Filosoficamente parlando: il più alto, il più importante, il più significativo fenomeno che il mondo possa mostrare non è chi il mondo conquista ma chi il mondo supera. Solo in chi rinnega quell’avida volontà di vivere, la volontà appare libera ma la sua condotta è opposta a quella comune.

Amore del prossimo, carità, benevolenza, pazienza, sobrietà, continenza, tolleranza – esempi nell’etica cristiana e in quella hindu (astinenza dal cibo animale, donazione del patrimonio, profonda assoluta solitudine, ecc.).

[Come sappiamo già dal terzo libro] nella contemplazione del bello, gli istanti in cui sciolti dal legame con la volontà, che ci tengono sollevati sulla greve aria terrestre, sono i più beati che conosciamo. Da qui possiamo ricavare come deve essere felice la vita di un uomo in cui la volontà, non per brevi istanti, ma spenta del tutto per sempre (eccettuata l’ultima scintilla che regge il corpo). Dopo molte amare lotte niente viene più ad angustiarlo, a scuoterlo.
Le mille fila che ci tengono legati al mondo in forma di sete, paura, invidia, ira, che ci trascinano con assurdo dolore, sono tagliate. Sereno e sorridente guarda le finte immagini del mondo.
Finché il corpo, sussiste ancora la possibilità della volontà di vivere…. l’ ascesi: continua mortificazione della volontà.

I più arrivano alla negazione della volontà dopo che il destino ha inflitto loro un fortissimo dolore. Nell’eccesso del dolore si è mostrato il segreto ultimo della vita, cioè che dolore e malvagità, sofferenza e odio, il tormentato e il tormentatore sono in sé tutt’uno [diversi appaiono secondo il principio di ragione], fenomeno dell’unica volontà che oggettiva il dissidio con se stessa.

Si scorge il nulla di ogni aspirazione, niente viene più desiderato e il carattere si mostra dolce triste rassegnato (esempi di persone che dopo una vita di passioni abbandonano tutto). Ma degno di venerazione appare colui che soffre quando il suo dolore personale considera come un esempio del Tutto.
I miti e i dogmi che spiegano poi questa intuitiva e diretta conoscenza sono indifferenti.

Tuttavia… la sensibilità nella vita o nella rappresentazione poetica: si soffre sempre e sempre ci si lamenta, senza elevarsi alla rassegnazione e fortificarsi – si pensa di aver perduto insieme cielo e terra, conservando solo una lagrimosa sensibilità.

La negazione della volontà di vivere proviene dalla cognizione dell’intimo dissidio della volontà con se stessa e della sua essenziale v a n i t à, che si manifestano nei dolori di ogni essere vivente.
Vera salvezza e redenzione della vita e dal dolore non può essere immaginata senza completa negazione della volontà. Prima di giungere a quel punto, noi non siamo che quella volontà stessa, il cui fenomeno è un’esistenza evanescente, vano aspirare, è l’intero doloroso mondo della rappresentazione, al quale tutti in egual modo appartengono.

La negazione della volontà di vivere è l’unico atto di libertà possibile al fenomeno.
Il suicidio è invece un forte atto di affermazione della volontà stessa. La volontà di vivere nel suicida viene a trovarsi tanto compressa da non poter più svolgere la propria tendenza, allora prende una risoluzione conforme alla propria essenza: la volontà si afferma con la soppressione del proprio fenomeno. Appunto perché il suicida non può cessare di volere, cessa di vivere. Il suicidio arbitraria distruzione di un fenomeno isolato è azione in tutto vana e stolta.
La volontà di vivere è la cosa in sé, nessuna forza può distruggerla; essa può essere soppressa solo dalla conoscenza.

N. B. Schopenhauer, nega il libero arbitrio.
La libertà di negare la volontà non proviene direttamente dalla volontà, ma da un mutato modo di conoscere. Ciò accade quando il carattere è sottratto all’impero dei motivi. Difatti quando il principium individuationis è superato e le idee vengono direttamente conosciute, allora perdono ogni potere i motivi, perché il modo di conoscere si è offuscato.
Questa libertà non si può ottenere con deliberato proposito, essa viene da un più intimo rapporto del conoscere col volere, quindi anch’essa è un atto di libertà del volere. (Dalla Chiesa è chiamata grazia).
[Nocciolo del Cristianesimo: la dottrina del peccato originale con quella della redenzione (affermazione e negazione della volontà). Gesù come simbolo della negazione della volontà. Il cristianesimo moderno: uno scipito ottimismo.]

Lutero nel De servo arbitrio dichiara che la volontà non sia libera, ma all’origine soggetta all’inclinazione al male e che non già le opere ma la fede sola salva. Codesta fede non nasce da proposito ma dall’azione della grazia, senza il nostro concorso. Così anche in Agostino. Saremo salvati senza alcun merito personale.
Schopenhauer concorda e aggiunge: se conducessero alla beatitudine le opere, le quali emanano dai motivi e da meditato proposito, sarebbe allora la virtù null’altro che un sottile, metodico, lungimirante egoismo.

L’etica del sistema schopenhaueriano coincide con i dogmi veri dei cristiani e con le prescrizioni morali dei libri sacri indiani.

Allo stato in cui si trovano coloro che pervennero alla completa negazione della volontà, sono stati dati i nomi di estasi, rapimento, illuminazione, unione con Dio, ecc.
Ma tale stato non può chiamarsi conoscenza, perché non ha più le forme di soggetto e oggetto, inoltre è accessibile solo all’esperienza diretta e non è comunicabile.
Soppressa la volontà è soppresso anche il fenomeno, il mondo, davanti a noi resta il nulla.
In luogo dell’incessante, infinito affanno, agitato impulso, appare quella pace che sta più in alto di tutta la ragione.

Quel che rimane dopo la soppressione della volontà è, per coloro che della volontà sono pieni, il nulla. Ma per coloro in cui la volontà si è rinnegata, questo nostro universo reale, con tutti i suoi soli e le sue vie lattee, è – il nulla.

mercoledì 2 dicembre 2009

NIETZSCHE, La nascita della tragedia 1871

La nascita dell’arte è legata alla duplicità dell’apollineo e del dionisiaco. Apollo e Dioniso sono due divinità artistiche. Nel mondo greco sussiste un’enorme contrasto (per origine e fine) fra l’arte dello scultore, apollinea, e l’arte non figurativa della musica, dionisiaca.
Immaginiamo questi due impulsi come mondi separati (come due fenomeni fisiologici) del sogno e dell’ ebbrezza.

Nel sogno apparvero le magnifiche figure degli dèi, allo scultore; anche il poeta interrogato sui segreti della creazione poetica avrebbe ugualmente ricordato il sogno. La bella parvenza dei mondi del sogno è il presupposto di ogni arte figurativa, Tuttavia nonostante la vita suprema di questa realtà sognata traluce in noi il sentimento della sua illusione. L’artista gioca col sogno, sa della sua illusione, ma sperimenta in esso tutta la ‘divina commedia’ della vita. Questa giocosa necessità del sogno è espressa da Apollo, dio di tutte le capacità (che domina anche la bella parvenza del mondo intimo della fantasia). La superiore verità, la perfezione di questi stati, contrastano con la realtà della vita quotidiana. Nell’immagine di Apollo troviamo: moderata limitazione, libertà dalle emozioni più violente, un occhio solare. Apollo è l’incrollabile fiducia nel principium individuationis; il placido acquietarsi di colui che da esso è dominato. Apollo come espressione sublime, magnifica immagine del principium individuationis.

Alla base dell’ebbrezza c’è l’orrore che afferra l’uomo quando improvvisamente perde fiducia nelle forme di conoscenza dell’apparenza, in quanto il principio di ragione sembra soffrire un’eccezione in qualcuna delle sue configurazioni. A cui si aggiunge l’estatico rapimento che sale dall’intima profondità della natura. Con la violazione del principium individuationis, abbiamo l’essenza del dionisiaco. Impulsi dionisiaci, nella cui esaltazione l’elemento soggettivo svanisce in un completo oblio di sé. Sotto l’incantesimo del dionisiaco si infrangono le ostili delimitazioni che la necessità, l’arbitrio e la moda hanno stabilito. Si restringe il legame tra uomo e uomo e si giunge a una riconciliazione con la natura. Strappato il velo di Maia, l’uomo si ritrova davanti alla misteriosa unità originaria.. L’uomo non è più artista (come nel sogno), è divenuto opera d’arte. Si rivela qui, nell’ebbrezza, il potere artistico dell’intera natura.
Rispetto a questi stati artistici immediati ogni artista è imitatore.
Al contrario di tutti coloro che si studiano di far discendere le arti da un unico principio, come fonte di vita necessaria di ogni arte, io tengo lo sguardo fisso alle due divinità artistiche dei Greci, Apollo e Dioniso, e vedo in loro i vivi e intuitivi rappresentanti di due mondi d’arte, diversi nella loro essenza intime e nelle loro finalità supreme. Apollo mi sta innanzi come il genio trasfiguratore del principium individuationis, grazie a cui soltanto si può conseguire davvero la liberazione nell’illusione; per contro al mistico grido di giubilo di Dioniso la catena dell’individuazione viene spezzata e si apre la via verso la madre dell’essere, verso l’essenza intima delle cose. Questa enorme antitesi, che si apre come un abisso tra l’arte plastica in quanto apollinea e la musica in quanto arte dionisiaca, si è palesata a uno soltanto dei grandi pensatori, in misura tale che egli, pur senza la guida del simbolismo degli dèi ellenici, ha riconosciuto alla musica un diverso carattere e una diversa origine rispetto a tutte le altre arti, perché essa non è, come tutte quelle, immagine dell’apparenza, bensì immediatamente immagine della volontà stessa, e dunque rappresenta, rispetto a ogni fisica del mondo, la metafisica, e rispetto a ogni apparenza, la cosa in sé. Questa concezione è la più importante di tutta l’estetica… [segue cit. da Schopenhauer]
Secondo la dottrina di Schopenhauer noi comprendiamo la musica come linguaggio immediato della volontà e sentiamo la nostra fantasia stimolata a dar forma a quel mondo di spiriti che ci parla, invisibile ma così vivamente mosso, e a rappresentarcelo in un esempio analogo. D’altra parte sotto l’influenza di una musica veramente rispondente, immagine e concetto acquistano un accresciuto significato. L’arte dionisiaca suole dunque esplicare effetti di due specie sulla facoltà artistica apollinea: la musica spinge all’intuizione simbolica dell’universalità dionisiaca e in secondo luogo la musica fa risaltare l’immagine simbolica in una suprema significazione.
Da questi fatti in sé comprensibili e non inaccessibili a una considerazione un po’ profonda, io deduco l’attitudine della musica a generare il mito, cioè l’esempio più significativo, e precisamente il mito tragico: il mito che parla per simboli della conoscenza dionisiaca. Nel fenomeno del poeta lirico notiamo che la musica in lui si sforza di rivelare la sua essenza con immagini apollinee; se ora immaginiamo che, nel suo massimo potenziamento, la musica debba cercare di pervenire anche a una simbolizzazione massima, dobbiamo ritenere possibile che essa sappia anche trovare l’espressione simbolica per la sua vera e propria sapienza dionisiaca: e dove mai dovremo cercare questa espressione, se non nella tragedia e in genere nel concetto del tragico?
Una finalità tutta diversa ha l’arte dello scultore: Apollo supera la sofferenza dell’individuo con la sua luminosa glorificazione dell’eternità dell’apparenza, qui la bellezza vince la sofferenza che inerisce alla vita, il dolore viene in un certo senso fatto scomparire dai tratti della natura. Lo scultore è affine all’epico, entrambi sono sprofondati nella pura intuizione delle immagini; le immagini sono contemplate, essi non si immedesimano con le loro figure. Il musicista dionisiaco è, senza alcuna immagine, egli stesso totalmente e unicamente il dolore originario stesso e l’eco originario di esso.

Per un miracoloso atto della “volontà” ellenica, l’apollineo e il dionisiaco, si accoppiano producendo l’opera d’arte altrettanto dionisiaca che apollinea della tragedia attica. Nella tragedia, l’artista come uno che nell’ebbrezza dionisiaca e nell’alienazione mistica di sé si lascia andare solitario e in disparte dalle schiere deliranti, al quale poi sotto l’influsso apollineo del sogno il suo stato (la sua unità con l’essenza intima del mondo) gli si rivela in un’immagine di sogno simbolica.

Cultura apollinea, prima dell’introduzione del culto di Dioniso in Grecia.
Della vita che appare inspiegabilmente serena, cosa diceva l’antica saggezza popolare? Interrogato, il saggio Sileno rispose: meglio per l’uomo non essere nato, non essere, essere niente, ma la cosa in secondo luogo migliore è morire presto! Il greco conobbe e sentì i terrori e le atrocità dell’esistenza; per poter vivere dovette per profondissima necessità creare gli dèi olimpici. Un popolo che aveva un talento così unico per il soffrire come avrebbe potuto sopportare l’esistenza se questa non gli fosse stata mostrata nei suoi dèi circonfusa di una gloria superiore. Gli dèi giustificano la vita vivendola essi stessi. Lo stesso impulso che suscita l’arte come completamento dell’esistenza che induce a continuare a vivere, fece nascere anche il mondo olimpico.
Quanto più nella natura scorge quegli impulsi artistici e in essi un fervido anelito verso l’illusione, la liberazione attraverso l’illusione, tanto più si sente spinto alla supposizione metafisica che ciò che veramente è, l’uno originario, in quanto eternamente soffre ed è pieno di contraddizioni, ha nello stesso tempo bisogno per liberarsi continuamente della visione estasiante, della gioiosa illusione. La realtà empirica, il mondo in genere è la rappresentazione prodotta dall’uno originario in ogni istante. Allora il sogno dovrà essere considerato come l’illusione dell’illusione. Quindi come una soddisfazione ancora maggiore della brama originaria d’illusione.

Apollo in quanto divinizzazione del principio di individuazione, indica che tutto il mondo dell’affanno è necessario, perché da esso l’individuo possa essere spinto alla creazione della visione liberatrice. Come divinità etica Apollo impone la misura: “nulla di troppo”, “conosci te stesso”. Ogni bellezza e moderazione poggiano su un fondamento, mascherato, di sofferenza e conoscenza. L’eccesso, l’esaltazione furono considerati barbarici.
Ma il dionisiaco era una necessità, come lo era l’apollineo. Esso penetra nell’ambiente greco: lotta… poi conciliazione. L’eccesso (delle feste dionisiache) della natura si palesa in gioia, dolore e conoscenza. L’eccesso si rivela come verità. L’ individuo con tutti i suoi limiti sprofondò nell’oblio di sé degli stati dionisiaci e dimenticò i canoni apollinei. La contraddizione, la gioia nata dal dolore, parlarono di sé sgorgando dal cuore della natura.

Apollineo e dionisiaco. L’estetica moderna ha visto qui la contrapposizione tra l’artista “oggettivo” e l’artista “soggettivo”. [es.: Omero – apollineo; Archiloco- dionisiaco] A noi quest’interpretazione serve poco, perché conosciamo l’artista soggettivo come cattivo artista e in ogni forma e grado dell’arte pretendiamo soprattutto e innanzi tutto il superamento del soggettivo, la liberazione dall’io e l’assenza di ogni volontà e capriccio individuale.
Il poeta lirico dice sempre io (canta a noi l’intera scala cromatica delle passioni e dei suoi desideri). Sembra essere il non artista, ma l’io del lirico risuona dall’abisso dell’essere. Il soggetto empirico, cioè l’individuo che vuole e promuove i suoi scopi egoistici, può essere pensato solo come un avversario e non come origine dell’arte.

Archiloco introdusse il canto popolare, che storicamente ha avuto sempre come sostrato e presupposto una corrente dionisiaca. Il canto popolare rappresenta uno specchio musicale del mondo, una melodia primordiale, che cerca poi per sé un’apparenza di sogno parallela e la esprime in poesia.
La melodia è l’elemento primario e universale. Nella poesia del canto popolare vediamo il linguaggio teso al massimo per imitare la musica. La melodia genera da sé la poesia[1].

Le rappresentazioni simboliche nate dalla musica, in nessun modo possono istruire sul contenuto dionisiaco della musica, anzi non hanno nessun valore esclusivo rispetto ad altre immagini.
La musica nella sua assoluta illimitatezza non ha bisogno dell’immagine e del concetto, ma solo li tollera accanto a sé.

Il simbolismo cosmico non può essere esaurientemente realizzato dal linguaggio, perché si riferisce alla contraddizione e al dolore originari nel cuore dell’uno primordiale, e pertanto simboleggia una sfera che è al di là di ogni apparenza e anteriore a ogni apparenza.

Consolazione metafisica lasciata alla tragedia: per cui in fondo alle cose la vita è, a dispetto di ogni mutare delle apparenze, indistruttibilmente potente e gioiosa; consolazione che appare in copiosa chiarezza nel coro dei Satiri, come coro di esseri naturali che vivono incorruttibili dietro ogni civiltà, e nonostante i mutamenti storici rimangono gli stessi.
La tragedia originariamente era solo coro e non dramma. Il greco nel Satiro vide la natura: l’immagine primigenia dell’uomo, l’espressione delle sue emozioni più alte e forti; come compagno in cui si ripete la sofferenza dl dio, come annunciatore di una saggezza tratta dal seno più profondo della natura, come simbolo dell’onnipotenza sessuale della natura. Di fronte al Satiro, l’uomo civile diventa una bugiarda caricatura. Il coro è un coro di trasformati, chi è esaltato da Dioniso vede se stesso come satiro; in questa trasformazione vede fuori di sé una visione, come compimento apollineo del proprio stato.
Processo che sta all’inizio del dramma: il coro dionisiaco che si scarica in un mondo apollineo di immagini. E’ la visione del dramma, la quale in tutto è apparenza di sogno e perciò di natura epica, ma che come oggettivazione di uno stato dionisiaco, non rappresenta la liberazione apollinea nell’illusione, ma al contrario lo spezzarsi dell’individuo e il suo unificarsi con l’essere originario; pertanto il dramma è la rappresentazione apollinea sensibile di conoscenze e moti dionisiaci.
La Scena assieme all’azione fu pensata originariamente solo come visione, che l’unica realtà è appunto il coro, il quale produce fuori di sé la visione e parla di essa con tutto il simbolismo della danza, del suono e della parola.
Esempi nell’Edipo di Sofocle, nel Prometeo di Eschilo: nell’eroico impulso verso l’universale, nel tentativo di oltrepassare la barriera dell’individuazione e di voler essere lui stesso l’unica essenza del mondo, egli patisce in sé la contraddizione originaria nascosta nelle cose[2], vale a dire commette un delitto e soffre. Nella sua forma più antica la tragedia aveva per oggetto solo i dolori di Dioniso. L’unico eroe presente sulla scena. Le altre figure (Prometeo, Edipo) sono soltanto maschere di quell’eroe originario. La gioia metafisica per ciò che è tragico è una traduzione della sapienza dionisiaca istintiva e inconscia nel linguaggio dell’immagine: l’eroe, la più alta apparenza della volontà, viene con nostra gioia negato, perché è comunque solo apparenza, e la vita eterna della volontà non viene toccata dalla sua distruzione.

I greci non potevano tollerare individui sulla scena tragica. L’unico Dioniso veramente reale appare (per l’effetto apollineo) in una molteplicità di figure, nella maschera di un eroe in lotta, che è per così dire preso nella rete della volontà individuale.
Sofferenza dionisiaca: il dio sperimenta su di sé i dolori dell’individuazione. Lo stato dell’individuazione come la fonte e la causa prima di ogni sofferenza, come qualcosa in sé detestabile.
La verità dionisiaca assume l’intera sfera del mito come simbolismo delle proprie conoscenze, esprimendole nel culto pubblico della tragedia e nelle celebrazioni segrete delle feste drammatiche dei misteri. Con la tragedia il mito perviene al suo contenuto più profondo, alla sua forma più espressiva.

La tragedia morì suicida. Nella commedia attica nuova sopravvive la forma degenerata della tragedia. Con Euripide, lo spettatore, l’uomo della vita quotidiana appare sulla scena. I tragici anteriori si erano guardati dal riprodurre la realtà, Euripide si vanta di aver liberato l’arte tragica dalla sua pomposa corpulenza. La tendenza di Euripide fu di eliminare dalla tragedia l’elemento dionisiaco originario. Sulla scena prendeva a parlare la mediocrità cittadina; lo spettatore vede il suo sosia. Egli rappresentava la vita e la pratica comuni, di cui ognuno era capace di giudicare. Con la commedia assistiamo al trionfo della furbizia, della scaltrezza, della volubilità, dell’arbitrio, ecc.
[Con la morte della tragedia il Greco ha perso la fede nella propria immortalità. ]
Euripide scorge nella tragedia una enigmatica profondità, l’incommensurabilità, la problematica dei miti: in cui le figure accennano qualcosa di incerto e incerta è la soluzione dei problemi etici. Egli esprime un talento critico – l’intelletto era da lui considerato la vera e propria radice di ogni godimento e creazione. Egli si guarda intorno per scoprire chi come lui non capisce la tragedia e vede Socrate. Per bocca di Euripide non parlava Dioniso o Apollo, ma un nuovo demone di recente nascita: Socrate (il quale pare aiutasse Euripide a poetare).

Tendenza socratica (con l’aiuto della quale Euripide vinse contro la tragedia). Socrate, l’unico che ammetteva di non sapere, vedeva che gli altri (statisti, oratori, poeti) presumevano di sapere, ma non avevano una idea giusta della loro professione e che la esercitavano per istinto, solo per istinto. Per Socrate solo chi sa è virtuoso.
Essenza del socratismo estetico, la cui legge suprema suona: tutto deve essere razionale per essere bello. Euripide è come poeta l’eco delle sue cognizioni coscienti: l’intelletto incluso nel creare artistico. Socrate, individuo non mistico, in cui mai arse la follia dell’entusiasmo artistico. Doveva scorgere nella tragedia qualcosa di assolutamente irrazionale[3], che annoverava tra le arti lusingatrici, che non rappresentano l’utile. Socrate, l’eroe dialettico del dramma platonico (nei dialoghi), come l’eroe di euripideo, deve difendere la sua azione con ragioni e controragioni: l’eroe virtuoso deve essere dialettico. C’è un ottimismo nella natura della dialettica, che celebra la propria festa in ogni conclusione. La morte della tragedia sta in queste tre formule socratiche: la virtù è sapere; si pecca solo per ignoranza; il virtuoso è felice. Idea illusoria che viene al mondo per la prima volta con Socrate: quella incrollabile fede che il pensiero giunga, seguendo il filo conduttore della causalità, fin nei più profondi abissi dell’essere, e che il pensiero sia in grado non solo di conoscere, ma addirittura di correggere l’essere.
E’ la sublime illusione data alla Scienza. La scienza opposta alla concezione tragica del mondo. L’influenza di Socrate si è allargata sulla posterità sino a questo momento. Nel mondo odierno assistiamo alla lotta tra la conoscenza insaziabile e ottimistica e il bisogno tragico dell’arte.
Il non dionisiaco: la musica descrittiva, non più generatrice di miti, meschina immagine dell’apparenza; la rappresentazione di caratteri, verità naturalistica (tendenza extra-artistica nella nascita dell’Opera).

Tutto il mondo moderno è preso nella rete della cultura socratica, e trova il suo ideale nell’ uomo teoretico, che lavora al servizio della scienza. La scienza crede nella conoscibilità e attingibilità di tutti gli enigmi del mondo, eleva l’apparenza a unica e suprema realtà e la pone al di sopra dell’intima vera essenza delle cose, rendendo impossibile la conoscenza di quest’ultima.
La cultura tragica pone al posto della scienza la sapienza, che non si lascia ingannare dalla scienza e guarda all’immagine totale del mondo, cercando di cogliere, con simpatetico sentimento d’amore, l’eterna sofferenza come sofferenza propria.
[1] Schiller: prima dell’atto del poetare, non una serie di immagini o una ordinata causalità di pensieri, ma piuttosto una disposizione musicale.
[2] Nietzsche come Schopenhauer parla di “sventura nell’essenza delle cose” e di “contraddizione nel cuore del mondo”.
[3] Come genere preferiva la favola esopica, mentre Platone, giovane poeta tragico, bruciò le sue poesie per seguire Socrate.

martedì 1 dicembre 2009

Schopenhauer, Quadruplice

Schopenhauer, Sulla quadruplice radice del principio di ragione sufficiente (1813)

Principio di ogni filosofare è il principio di ragione sufficiente. Sua definizione:
Niente è senza una ragione per la quale sia piuttosto che non sia.

Tutte le nostre rappresentazioni stanno tra loro in una connessione regolare (in quanto alla forma essa è determinabile a priori). Questo collegamento esprime il principio di ragione sufficiente nella sua universalità. Qualsiasi oggetto sta in una relazione necessaria con altri oggetti. Il collegamento assume quattro forme diverse a seconda della specie di oggetti.
Schopenhauer individua quattro radici, cioè quattro tipi di rapporti = a quattro tipi di classi in cui si scompone tutto ciò che può essere oggetto per noi.

Principio di ragione sufficiente del divenire (ratio fiendi) – Correlato soggettivo: intelletto.
Classe di oggetti: rappresentazioni intuitive (empiriche).

Principio di ragione sufficiente del conoscere (ratio cognoscendi) – Correlato soggettivo: ragione. Classe di oggetti: rappresentazioni astratte (concetti).

Principio di ragione sufficiente dell’essere (ratio essendi) – Correlato soggettivo: pura sensibilità. Classe di oggetti: parte formale delle rappresentazioni (forme pure a priori: tempo e spazio).

Principio di ragione sufficiente dell’agire (ratio agendi) – Correlato soggettivo: autocoscienza. Classe di oggetti: soggetto del volere.

Il principio di ragione sufficiente del divenire, si presenta come legge della causalità (un effetto implica necessariamente una causa) ed è in rapporto alle modificazioni della realtà: attraverso la legge di causalità, l’intelletto concepisce la sensazione data del corpo come un effetto che in quanto tale deve avere una causa. Con l’aiuto della forma del senso esterno (spazio) l’intelletto trasferisce quella causa al di fuori dell’organismo.
Solo in questo modo nasce il di fuori.

In breve: i sensi offrono la materia prima, che l’intelletto per mezzo delle forme a priori (spazio, tempo e causalità) trasforma nell’intuizione oggettiva di un mondo fisico.

La causalità si presenta sotto tre forme:
1 – causa in senso stretto: nel regno inorganico (oggetto della meccanica, della fisica, della chimica).
2 – come stimolo: nella natura vegetale o nella parte inconscia della vita animale.
3 – come motivo: nella vita animale. (il motivo guida il fare: le azioni esterne accompagnate dalla
coscienza – oggetto dell’etica).

Principio di ragione sufficiente del conoscere. I concetti si fondano sul dato intuito e con l’aiuto del linguaggio sono fissati in parole. Il collegamento del dato intuito con il concetto astratto pensato, si ha con l’attività del GIUDIZIO (mediatore tra intelletto e ragione).

Pensare, riflettere è il carattere di questa seconda specie di conoscenza. Il pensare che opera con l’aiuto delle rappresentazioni intuitive è il vero e proprio nucleo di ogni conoscenza, in quanto risale allea fonte prima dei concetti. Ogni conoscenza vera e originale deve avere come sua base qualche idea intuita.

Definizione: quando deve esprimere una conoscenza, un giudizio deve avere una ragione sufficiente. Per questa qualità riceve allora il predicato di vero.
La verità di un giudizio consiste nel suo rapporto con qualcosa di diverso da esso, che viene chiamato la sua ragione.

Si ha una verità logica quando un giudizio ha come ragione un altro giudizio (per es. nel sillogismo).
Si ha verità empirica quando un giudizio ha come ragione una rappresentazione intuitiva (che ha verità materiale).

Principio di ragione sufficiente dell’essere. Le forme del tempo e dello spazio vengono intuite in modo puro, separate dalla materia (contenuto).

Ricorda: la causalità non è di per sé e separatamente un oggetto della facoltà di rappresentazione, ma entra nella coscienza solo con e nel materiale della conoscenza.

Il principio è la legge per la quale le parti dello spazio e del tempo si determinano tra loro rispetto a rapporti di posizione e di successione (applicazioni nella matematica e nella geometria).

Questo rapporto è diverso da quello causa-effetto e da quello ragione-conseguenza.
Esempio. Domanda: perché in questo triangolo i tre lati sono uguali? Risposta è: perché i tre angoli sono uguali.
D: Ma l’uguaglianza degli angoli è la causa dell’uguaglianza dei lati?
R: No, perché non si parla di una modificazione (causa – effetto).
D: E’ allora una ragione di conoscenza?
R: No, perché nel concetto dell’uguaglianza degli angoli non c’è quello della uguaglianza dei lati. Il rapporto non è tra concetti, ma solo tra lati e angoli.
L’uguaglianza degli angoli è la ragione dell’esser così dell’uguaglianza dei lati.

Altro esempio: perché mai in realtà il passato è assolutamente irrecuperabile e il futuro imprevedibile? Risposta: è così! Non si può dimostrare in modo logico.

Principio di ragione sufficiente dell’agire. Un solo oggetto: il soggetto del volere. Il soggetto conoscente conosce se stesso come un soggetto che vuole. E il volere è la più immediata delle nostre conoscenze.
Il principio: per ogni nostra risoluzione che percepiamo in noi stessi ci chiediamo: perché? Presupponiamo che sia stata preceduta da qualcosa, che noi chiamiamo il motivo dell’azione. Senza tale motivo l’azione è impensabile.
Il motivo fa parte delle cause (è la causalità che passa attraverso la conoscenza): è una rappresentazione che provoca un atto di volontà

Altri passi interessanti dalla Quadruplice.
Non possediamo una facoltà fatta per le cognizioni metafisiche. Ciò che è innato in noi (a priori, indipendente dall’esperienza) è limitato alla parte formale della conoscenza, cioè alle funzioni dell’intelletto. I concetti della ragione hanno la loro materia e il loro contenuto dalla conoscenza intuitiva, presa dall’intelletto, dalla sensazione. La ragione non ha affatto un contenuto materiale, ma soltanto un contenuto formale. Con i mezzi propri la ragione non può procurarsi un contenuto.

Schopenhauer pone l'importante differenza tra causa e ragione della conoscenza.

A - sapere e provare che una cosa è = la ragione della conoscenza.
B - sapere e provare il perché essa è = la conoscenza di una causa.

A = ragione del conoscere per la fondazione di un giudizio.
B = causa per il prodursi di un fatto reale.

Esempio. Confusione tra ragione e conseguenza nella prova dell’esistenza di Dio in Cartesio, che dice: “nel concetto di essere perfettissimo è necessariamente contenuta l’esistenza. Ma qui, obietta Schopenhauer, c’è un rapporto tra ragione e conseguenza e non un rapporto di causa ed effetto.

Ricorda: il principio di ragione sufficiente del conoscere, non comporta una relazione temporale, ma solo una relazione ragione/conseguenza. Qui prima e dopo sono senza significato.

domenica 29 novembre 2009

Nietzsche sul nichilismo

Uso ambivalente del termine:
Designa un bersaglio polemico, cioè un movimento antico di decadenza che deve essere debellato.
Designa una fase necessaria che apre la strada verso una vita autentica e affermativa..
A più riprese Nietzsche indica se stesso come un nichilista e loda il nichilismo come conseguenza di una adulta veracità.
Nell’accezione positiva il nichilismo per il filosofo è un riposo.
“Il credere che non ci sia nessuna verità, la fede del nichilista, è come un piacevole stirarsi le membra per uno che, come uomo di guerra della conoscenza, si ritrova incessantemente in lotta con verità tutte brutte.” (Fr. post. 1887-88, 11[108])
Con la valutazione positiva del nichilismo si accordano tutti i frammenti antipolitici, in cui si raccomanda di non intervenire nella sfera dell’azione.

Critica del nichilismo.
1) Il nichilismo come stato psicologico subentra quando abbiamo cercato un senso in tutto l’accadere che in esso non c’è. Alla fine a chi cerca viene a mancare il coraggio. Il nichilismo è allora l’acquistare coscienza del lungo spreco di forze, il tormento dell’invano. Si vive nell’insicurezza, manca il tranquillizzarsi su qualcosa.
Quel senso potrebbe essere stato:
L’adempimento di un supremo canone morale in tutto l’accadere
L’ordine morale del mondo
L’accrescimento dell’amore e dell’armonia nei rapporti fra gli esseri
L’avvicinamento a uno stato universale di felicità
Poi si capisce che col divenire non si mira a nulla, non si raggiunge nulla.
Dunque, la delusione su un preteso fine del divenire è una causa del nichilismo.

2) La delusione subentra anche quando si è postulata una totalità, un universale che non c’è. L’uomo ha perduto la fede nel suo valore, se attraverso di lui non opera un tutto che abbia un infinito valore; egli ha cioè concepito un tale tutto per poter credere nel proprio valore.
3) Come scappatoia, dopo le due constatazioni, non resta che condannare come illusione tutto questo mondo del divenire e inventare un mondo che sia al di là di esso, come mondo vero. Ma appena l’uomo si accorge che questo mondo è stato fabbricato solo in base a bisogni psicologici… sorge l’ultima forma di nichilismo, che racchiude in sé l’incredulità per un mondo metafisico. Allora si ammette la realtà del divenire come unica realtà (che si vieta ogni via per giungere a mondi dietro i mondi e a false divinità), tuttavia non si sopporta questo mondo che pure non si vuole negare.Non è più lecito interpretare il mondo con le categorie di fine, unità, verità, che risultano inapplicabili, e ora il mondo appare privo di valore.
(da: Frammenti postumi 1887-1888, 11[99]).

Vantaggi della morale.
La morale fu il grande rimedio contro il nichilismo teorico e pratico, in quanto conferiva valore all’uomo. Impediva all’uomo di prendere patito contro la vita, di disperare, di disprezzarsi. Attraverso la morale anche il male appariva pieno di senso.

Ma la morale promuoveva tra le sue forze anche la veridicità. Proprio questa si rivolse contro la morale mettendone a nudo la considerazione interessata.
E oggi si scopre questa lunga e inveterata menzogna.
Per scalzare questa posizione occorrono posizioni estreme: la credenza dell’assoluta immoralità della natura e della mancanza di senso e di scopo – diventano necessarie quando non si può più sostenere la fede in Dio e la fede in un ordine essenzialmente morale.

Il nichilismo appare ora non perché il dolore dell’esistenza sia maggiore di prima, ma perché si trova diffidenza a vedere un senso nella stessa esistenza.

Ora, poiché una interpretazione è tramontata, che si presentava come la interpretazione, sembra che l’esistenza non abbia più senso, e che tutto sia invano.
La durata di questo invano è il pensiero più paralizzante, esso è la forma estrema del nichilismo: il nulla eterno.

Cause del nichilismo:
1. manca la specie superiore, cioè quella la cui inesauribile fecondità e potenza tiene viva la fede nell’uomo.
2. la specie inferiore, gregge, massa, società, disimpara la modestia e gonfia i suoi bisogni fino a farne valor cosmici e metafisici. Tutta l’esistenza ne viene volgarizzata; dominando, la massa tiranneggia le eccezioni, sicché queste ultime perdono fede in sé e diventano nichilisti.
Tutti i tentativi di escogitare tipi superiori sono mancati.
Resistenza contro il tipo superiore come risultato.
Decadenza e insicurezza di tutti i tipi superiori; la lotta contro il genio.
Pietà per gli inferiori e i sofferenti come criterio per misurare l’altezza dell’anima.
Manca il filosofo….
(da: Frammenti postumi 1887-1888, 9[44]).


Il nichilismo è alle porte: da dove ci viene il più sinistro di tutti gli ospiti?
1. è un errore credere che causa del nichilismo siano le «precarie condizioni sociali» o le «degenerazioni fisiologiche» o addirittura la corruzione… Il nichilismo si annida invece in un’interpretazione affatto determinata, in quella cristiano-morale… La miseria, il travaglio spirituale, fisico, intellettuale non sono affatto di per sé capaci di produrre il nichilismo, ossia il rifiuto radicale di valore, senso, desiderabilità.
2. il tramonto del cristianesimo – a causa della sua morale, la quale si rivolge contro il Dio cristiano: il senso della veridicità, altamente sviluppato dal cristianesimo, prova disgusto per la falsità e mendacità di tutta l’interpretazione cristiana del mondo e della storia.
3. il tramonto dell’interpretazione morale del mondo, che non ha più una sanzione, dopo aver tentato di rifugiarsi in un al di là: ciò finisce nel nichilismo… Tratto buddhistico, desiderio del nulla.
Nichilismo nella morale,nelle scienze naturali, nell’economia e nella politica, nell’arte…

Appunti sul superuomo nietzscheano

1. Il superuomo è il senso della terra, colui che rimane fedele alla terra, che non crede a chi gli parla di sovraterrene speranze (costoro sono dispregiatori della vita).
2. L’uomo è qualcosa che deve essere superato; la grandezza dell’uomo è di essere un ponte; l’uomo non ha ancor fissato la propria meta; all’umanità manca ancora uno scopo, sull’umanità ha dominato fino ad oggi l’assurdo, il senza-senso.
3. L’ultimo uomo, l’individuo più spregevole, è colui che tutto rimpicciolisce; è lo spirito di gravità che ha creato costrizione, scopo, bene e male. E’ uno che vuole vivere come gli altri, essere come gli altri, che vuole le stesse cose; in lui la viltà è chiamata virtù; uno che abbraccia una piccola felicità e si rassegna a piccoli piaceri.
4. Il superuomo è uno spirito libero, che disprezza e spezza tutto ciò che è stato posto come valore; uno che non giustifica l’esistenza in base alla propria felicità; uno che vive per la conoscenza e vive per conoscere; uno che sperimenta la vita.
5. Zarathustra si oppone alla dottrina che dice che tutto vano, tutto è indifferente, tutto fu. E’ contro gli aridi, gli stanchi della vita. Essi dicono “tutto è indifferente”, non vogliate. Tra questi ci sono gli altruisti, i senza io.
6. Bisogna imparare ad amare se stessi, di un amore sano e salutare; rimanere presso se stessi, senza andare in giro ad amare il prossimo (non il prossimo se mai l’amico). Bisogna scavare nella propria miniera: diventare ciò che si è. L’uomo è la cosa più difficile da scoprire.
7. Non è la vita un grave fardello,ma l’uomo stesso quando si trascina sulle spalle cose troppo estranee. La vita è una sorgente di piacere: conoscenza, questo è il piacere di coloro che hanno una volontà da leone. Chi è diventato stanco, non può che essere voluto ed è in balia del giuoco delle onde.
8. Certo ci sono cose proprie dell’uomo che risiedono nell’interiorità, difficili da afferrare e nauseanti, tanto che bisogna costruirsi un bel guscio; il peggior nemico che potrai incontrare sarai sempre te stesso. Ha scoperto se stesso colui che dice questo è il mio bene, questo è il mio male, secondo il proprio gusto.
9. Zarathustra ha indicato la strada e chiede: “dove è la vostra?” E così risponde a chi vuole conoscere la strada: “questa strada non esiste”. L’uomo è qualcosa che deve essere superato: vi sono vie e maniere di molte specie che portano al superamento – ma qui, vedi tu!

venerdì 27 novembre 2009

saluti

Ho creato questo blog, in cui saranno pubblicati appunti di storia e di filosofia, a beneficio degli studenti.