La nascita dell’arte è legata alla duplicità dell’apollineo e del dionisiaco. Apollo e Dioniso sono due divinità artistiche. Nel mondo greco sussiste un’enorme contrasto (per origine e fine) fra l’arte dello scultore, apollinea, e l’arte non figurativa della musica, dionisiaca.
Immaginiamo questi due impulsi come mondi separati (come due fenomeni fisiologici) del sogno e dell’ ebbrezza.
Nel sogno apparvero le magnifiche figure degli dèi, allo scultore; anche il poeta interrogato sui segreti della creazione poetica avrebbe ugualmente ricordato il sogno. La bella parvenza dei mondi del sogno è il presupposto di ogni arte figurativa, Tuttavia nonostante la vita suprema di questa realtà sognata traluce in noi il sentimento della sua illusione. L’artista gioca col sogno, sa della sua illusione, ma sperimenta in esso tutta la ‘divina commedia’ della vita. Questa giocosa necessità del sogno è espressa da Apollo, dio di tutte le capacità (che domina anche la bella parvenza del mondo intimo della fantasia). La superiore verità, la perfezione di questi stati, contrastano con la realtà della vita quotidiana. Nell’immagine di Apollo troviamo: moderata limitazione, libertà dalle emozioni più violente, un occhio solare. Apollo è l’incrollabile fiducia nel principium individuationis; il placido acquietarsi di colui che da esso è dominato. Apollo come espressione sublime, magnifica immagine del principium individuationis.
Alla base dell’ebbrezza c’è l’orrore che afferra l’uomo quando improvvisamente perde fiducia nelle forme di conoscenza dell’apparenza, in quanto il principio di ragione sembra soffrire un’eccezione in qualcuna delle sue configurazioni. A cui si aggiunge l’estatico rapimento che sale dall’intima profondità della natura. Con la violazione del principium individuationis, abbiamo l’essenza del dionisiaco. Impulsi dionisiaci, nella cui esaltazione l’elemento soggettivo svanisce in un completo oblio di sé. Sotto l’incantesimo del dionisiaco si infrangono le ostili delimitazioni che la necessità, l’arbitrio e la moda hanno stabilito. Si restringe il legame tra uomo e uomo e si giunge a una riconciliazione con la natura. Strappato il velo di Maia, l’uomo si ritrova davanti alla misteriosa unità originaria.. L’uomo non è più artista (come nel sogno), è divenuto opera d’arte. Si rivela qui, nell’ebbrezza, il potere artistico dell’intera natura.
Rispetto a questi stati artistici immediati ogni artista è imitatore.
Al contrario di tutti coloro che si studiano di far discendere le arti da un unico principio, come fonte di vita necessaria di ogni arte, io tengo lo sguardo fisso alle due divinità artistiche dei Greci, Apollo e Dioniso, e vedo in loro i vivi e intuitivi rappresentanti di due mondi d’arte, diversi nella loro essenza intime e nelle loro finalità supreme. Apollo mi sta innanzi come il genio trasfiguratore del principium individuationis, grazie a cui soltanto si può conseguire davvero la liberazione nell’illusione; per contro al mistico grido di giubilo di Dioniso la catena dell’individuazione viene spezzata e si apre la via verso la madre dell’essere, verso l’essenza intima delle cose. Questa enorme antitesi, che si apre come un abisso tra l’arte plastica in quanto apollinea e la musica in quanto arte dionisiaca, si è palesata a uno soltanto dei grandi pensatori, in misura tale che egli, pur senza la guida del simbolismo degli dèi ellenici, ha riconosciuto alla musica un diverso carattere e una diversa origine rispetto a tutte le altre arti, perché essa non è, come tutte quelle, immagine dell’apparenza, bensì immediatamente immagine della volontà stessa, e dunque rappresenta, rispetto a ogni fisica del mondo, la metafisica, e rispetto a ogni apparenza, la cosa in sé. Questa concezione è la più importante di tutta l’estetica… [segue cit. da Schopenhauer]
Secondo la dottrina di Schopenhauer noi comprendiamo la musica come linguaggio immediato della volontà e sentiamo la nostra fantasia stimolata a dar forma a quel mondo di spiriti che ci parla, invisibile ma così vivamente mosso, e a rappresentarcelo in un esempio analogo. D’altra parte sotto l’influenza di una musica veramente rispondente, immagine e concetto acquistano un accresciuto significato. L’arte dionisiaca suole dunque esplicare effetti di due specie sulla facoltà artistica apollinea: la musica spinge all’intuizione simbolica dell’universalità dionisiaca e in secondo luogo la musica fa risaltare l’immagine simbolica in una suprema significazione.
Da questi fatti in sé comprensibili e non inaccessibili a una considerazione un po’ profonda, io deduco l’attitudine della musica a generare il mito, cioè l’esempio più significativo, e precisamente il mito tragico: il mito che parla per simboli della conoscenza dionisiaca. Nel fenomeno del poeta lirico notiamo che la musica in lui si sforza di rivelare la sua essenza con immagini apollinee; se ora immaginiamo che, nel suo massimo potenziamento, la musica debba cercare di pervenire anche a una simbolizzazione massima, dobbiamo ritenere possibile che essa sappia anche trovare l’espressione simbolica per la sua vera e propria sapienza dionisiaca: e dove mai dovremo cercare questa espressione, se non nella tragedia e in genere nel concetto del tragico?
Una finalità tutta diversa ha l’arte dello scultore: Apollo supera la sofferenza dell’individuo con la sua luminosa glorificazione dell’eternità dell’apparenza, qui la bellezza vince la sofferenza che inerisce alla vita, il dolore viene in un certo senso fatto scomparire dai tratti della natura. Lo scultore è affine all’epico, entrambi sono sprofondati nella pura intuizione delle immagini; le immagini sono contemplate, essi non si immedesimano con le loro figure. Il musicista dionisiaco è, senza alcuna immagine, egli stesso totalmente e unicamente il dolore originario stesso e l’eco originario di esso.
Per un miracoloso atto della “volontà” ellenica, l’apollineo e il dionisiaco, si accoppiano producendo l’opera d’arte altrettanto dionisiaca che apollinea della tragedia attica. Nella tragedia, l’artista come uno che nell’ebbrezza dionisiaca e nell’alienazione mistica di sé si lascia andare solitario e in disparte dalle schiere deliranti, al quale poi sotto l’influsso apollineo del sogno il suo stato (la sua unità con l’essenza intima del mondo) gli si rivela in un’immagine di sogno simbolica.
Cultura apollinea, prima dell’introduzione del culto di Dioniso in Grecia.
Della vita che appare inspiegabilmente serena, cosa diceva l’antica saggezza popolare? Interrogato, il saggio Sileno rispose: meglio per l’uomo non essere nato, non essere, essere niente, ma la cosa in secondo luogo migliore è morire presto! Il greco conobbe e sentì i terrori e le atrocità dell’esistenza; per poter vivere dovette per profondissima necessità creare gli dèi olimpici. Un popolo che aveva un talento così unico per il soffrire come avrebbe potuto sopportare l’esistenza se questa non gli fosse stata mostrata nei suoi dèi circonfusa di una gloria superiore. Gli dèi giustificano la vita vivendola essi stessi. Lo stesso impulso che suscita l’arte come completamento dell’esistenza che induce a continuare a vivere, fece nascere anche il mondo olimpico.
Quanto più nella natura scorge quegli impulsi artistici e in essi un fervido anelito verso l’illusione, la liberazione attraverso l’illusione, tanto più si sente spinto alla supposizione metafisica che ciò che veramente è, l’uno originario, in quanto eternamente soffre ed è pieno di contraddizioni, ha nello stesso tempo bisogno per liberarsi continuamente della visione estasiante, della gioiosa illusione. La realtà empirica, il mondo in genere è la rappresentazione prodotta dall’uno originario in ogni istante. Allora il sogno dovrà essere considerato come l’illusione dell’illusione. Quindi come una soddisfazione ancora maggiore della brama originaria d’illusione.
Apollo in quanto divinizzazione del principio di individuazione, indica che tutto il mondo dell’affanno è necessario, perché da esso l’individuo possa essere spinto alla creazione della visione liberatrice. Come divinità etica Apollo impone la misura: “nulla di troppo”, “conosci te stesso”. Ogni bellezza e moderazione poggiano su un fondamento, mascherato, di sofferenza e conoscenza. L’eccesso, l’esaltazione furono considerati barbarici.
Ma il dionisiaco era una necessità, come lo era l’apollineo. Esso penetra nell’ambiente greco: lotta… poi conciliazione. L’eccesso (delle feste dionisiache) della natura si palesa in gioia, dolore e conoscenza. L’eccesso si rivela come verità. L’ individuo con tutti i suoi limiti sprofondò nell’oblio di sé degli stati dionisiaci e dimenticò i canoni apollinei. La contraddizione, la gioia nata dal dolore, parlarono di sé sgorgando dal cuore della natura.
Apollineo e dionisiaco. L’estetica moderna ha visto qui la contrapposizione tra l’artista “oggettivo” e l’artista “soggettivo”. [es.: Omero – apollineo; Archiloco- dionisiaco] A noi quest’interpretazione serve poco, perché conosciamo l’artista soggettivo come cattivo artista e in ogni forma e grado dell’arte pretendiamo soprattutto e innanzi tutto il superamento del soggettivo, la liberazione dall’io e l’assenza di ogni volontà e capriccio individuale.
Il poeta lirico dice sempre io (canta a noi l’intera scala cromatica delle passioni e dei suoi desideri). Sembra essere il non artista, ma l’io del lirico risuona dall’abisso dell’essere. Il soggetto empirico, cioè l’individuo che vuole e promuove i suoi scopi egoistici, può essere pensato solo come un avversario e non come origine dell’arte.
Archiloco introdusse il canto popolare, che storicamente ha avuto sempre come sostrato e presupposto una corrente dionisiaca. Il canto popolare rappresenta uno specchio musicale del mondo, una melodia primordiale, che cerca poi per sé un’apparenza di sogno parallela e la esprime in poesia.
La melodia è l’elemento primario e universale. Nella poesia del canto popolare vediamo il linguaggio teso al massimo per imitare la musica. La melodia genera da sé la poesia[1].
Le rappresentazioni simboliche nate dalla musica, in nessun modo possono istruire sul contenuto dionisiaco della musica, anzi non hanno nessun valore esclusivo rispetto ad altre immagini.
La musica nella sua assoluta illimitatezza non ha bisogno dell’immagine e del concetto, ma solo li tollera accanto a sé.
Il simbolismo cosmico non può essere esaurientemente realizzato dal linguaggio, perché si riferisce alla contraddizione e al dolore originari nel cuore dell’uno primordiale, e pertanto simboleggia una sfera che è al di là di ogni apparenza e anteriore a ogni apparenza.
Consolazione metafisica lasciata alla tragedia: per cui in fondo alle cose la vita è, a dispetto di ogni mutare delle apparenze, indistruttibilmente potente e gioiosa; consolazione che appare in copiosa chiarezza nel coro dei Satiri, come coro di esseri naturali che vivono incorruttibili dietro ogni civiltà, e nonostante i mutamenti storici rimangono gli stessi.
La tragedia originariamente era solo coro e non dramma. Il greco nel Satiro vide la natura: l’immagine primigenia dell’uomo, l’espressione delle sue emozioni più alte e forti; come compagno in cui si ripete la sofferenza dl dio, come annunciatore di una saggezza tratta dal seno più profondo della natura, come simbolo dell’onnipotenza sessuale della natura. Di fronte al Satiro, l’uomo civile diventa una bugiarda caricatura. Il coro è un coro di trasformati, chi è esaltato da Dioniso vede se stesso come satiro; in questa trasformazione vede fuori di sé una visione, come compimento apollineo del proprio stato.
Processo che sta all’inizio del dramma: il coro dionisiaco che si scarica in un mondo apollineo di immagini. E’ la visione del dramma, la quale in tutto è apparenza di sogno e perciò di natura epica, ma che come oggettivazione di uno stato dionisiaco, non rappresenta la liberazione apollinea nell’illusione, ma al contrario lo spezzarsi dell’individuo e il suo unificarsi con l’essere originario; pertanto il dramma è la rappresentazione apollinea sensibile di conoscenze e moti dionisiaci.
La Scena assieme all’azione fu pensata originariamente solo come visione, che l’unica realtà è appunto il coro, il quale produce fuori di sé la visione e parla di essa con tutto il simbolismo della danza, del suono e della parola.
Esempi nell’Edipo di Sofocle, nel Prometeo di Eschilo: nell’eroico impulso verso l’universale, nel tentativo di oltrepassare la barriera dell’individuazione e di voler essere lui stesso l’unica essenza del mondo, egli patisce in sé la contraddizione originaria nascosta nelle cose[2], vale a dire commette un delitto e soffre. Nella sua forma più antica la tragedia aveva per oggetto solo i dolori di Dioniso. L’unico eroe presente sulla scena. Le altre figure (Prometeo, Edipo) sono soltanto maschere di quell’eroe originario. La gioia metafisica per ciò che è tragico è una traduzione della sapienza dionisiaca istintiva e inconscia nel linguaggio dell’immagine: l’eroe, la più alta apparenza della volontà, viene con nostra gioia negato, perché è comunque solo apparenza, e la vita eterna della volontà non viene toccata dalla sua distruzione.
I greci non potevano tollerare individui sulla scena tragica. L’unico Dioniso veramente reale appare (per l’effetto apollineo) in una molteplicità di figure, nella maschera di un eroe in lotta, che è per così dire preso nella rete della volontà individuale.
Sofferenza dionisiaca: il dio sperimenta su di sé i dolori dell’individuazione. Lo stato dell’individuazione come la fonte e la causa prima di ogni sofferenza, come qualcosa in sé detestabile.
La verità dionisiaca assume l’intera sfera del mito come simbolismo delle proprie conoscenze, esprimendole nel culto pubblico della tragedia e nelle celebrazioni segrete delle feste drammatiche dei misteri. Con la tragedia il mito perviene al suo contenuto più profondo, alla sua forma più espressiva.
La tragedia morì suicida. Nella commedia attica nuova sopravvive la forma degenerata della tragedia. Con Euripide, lo spettatore, l’uomo della vita quotidiana appare sulla scena. I tragici anteriori si erano guardati dal riprodurre la realtà, Euripide si vanta di aver liberato l’arte tragica dalla sua pomposa corpulenza. La tendenza di Euripide fu di eliminare dalla tragedia l’elemento dionisiaco originario. Sulla scena prendeva a parlare la mediocrità cittadina; lo spettatore vede il suo sosia. Egli rappresentava la vita e la pratica comuni, di cui ognuno era capace di giudicare. Con la commedia assistiamo al trionfo della furbizia, della scaltrezza, della volubilità, dell’arbitrio, ecc.
[Con la morte della tragedia il Greco ha perso la fede nella propria immortalità. ]
Euripide scorge nella tragedia una enigmatica profondità, l’incommensurabilità, la problematica dei miti: in cui le figure accennano qualcosa di incerto e incerta è la soluzione dei problemi etici. Egli esprime un talento critico – l’intelletto era da lui considerato la vera e propria radice di ogni godimento e creazione. Egli si guarda intorno per scoprire chi come lui non capisce la tragedia e vede Socrate. Per bocca di Euripide non parlava Dioniso o Apollo, ma un nuovo demone di recente nascita: Socrate (il quale pare aiutasse Euripide a poetare).
Tendenza socratica (con l’aiuto della quale Euripide vinse contro la tragedia). Socrate, l’unico che ammetteva di non sapere, vedeva che gli altri (statisti, oratori, poeti) presumevano di sapere, ma non avevano una idea giusta della loro professione e che la esercitavano per istinto, solo per istinto. Per Socrate solo chi sa è virtuoso.
Essenza del socratismo estetico, la cui legge suprema suona: tutto deve essere razionale per essere bello. Euripide è come poeta l’eco delle sue cognizioni coscienti: l’intelletto incluso nel creare artistico. Socrate, individuo non mistico, in cui mai arse la follia dell’entusiasmo artistico. Doveva scorgere nella tragedia qualcosa di assolutamente irrazionale[3], che annoverava tra le arti lusingatrici, che non rappresentano l’utile. Socrate, l’eroe dialettico del dramma platonico (nei dialoghi), come l’eroe di euripideo, deve difendere la sua azione con ragioni e controragioni: l’eroe virtuoso deve essere dialettico. C’è un ottimismo nella natura della dialettica, che celebra la propria festa in ogni conclusione. La morte della tragedia sta in queste tre formule socratiche: la virtù è sapere; si pecca solo per ignoranza; il virtuoso è felice. Idea illusoria che viene al mondo per la prima volta con Socrate: quella incrollabile fede che il pensiero giunga, seguendo il filo conduttore della causalità, fin nei più profondi abissi dell’essere, e che il pensiero sia in grado non solo di conoscere, ma addirittura di correggere l’essere.
E’ la sublime illusione data alla Scienza. La scienza opposta alla concezione tragica del mondo. L’influenza di Socrate si è allargata sulla posterità sino a questo momento. Nel mondo odierno assistiamo alla lotta tra la conoscenza insaziabile e ottimistica e il bisogno tragico dell’arte.
Il non dionisiaco: la musica descrittiva, non più generatrice di miti, meschina immagine dell’apparenza; la rappresentazione di caratteri, verità naturalistica (tendenza extra-artistica nella nascita dell’Opera).
Tutto il mondo moderno è preso nella rete della cultura socratica, e trova il suo ideale nell’ uomo teoretico, che lavora al servizio della scienza. La scienza crede nella conoscibilità e attingibilità di tutti gli enigmi del mondo, eleva l’apparenza a unica e suprema realtà e la pone al di sopra dell’intima vera essenza delle cose, rendendo impossibile la conoscenza di quest’ultima.
La cultura tragica pone al posto della scienza la sapienza, che non si lascia ingannare dalla scienza e guarda all’immagine totale del mondo, cercando di cogliere, con simpatetico sentimento d’amore, l’eterna sofferenza come sofferenza propria.
[1] Schiller: prima dell’atto del poetare, non una serie di immagini o una ordinata causalità di pensieri, ma piuttosto una disposizione musicale.
[2] Nietzsche come Schopenhauer parla di “sventura nell’essenza delle cose” e di “contraddizione nel cuore del mondo”.
[3] Come genere preferiva la favola esopica, mentre Platone, giovane poeta tragico, bruciò le sue poesie per seguire Socrate.
mercoledì 2 dicembre 2009
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