Nell'ambito di queste lezioni sul senso del tragico non
poteva mancare la riflessione di Nietzsche.
Non solo perché il termine compare in due sue
importanti opere giovanili, e cioè La nascita della
tragedia del 1871 e La filosofia nell'epoca tragica dei Greci
del 1873, ma soprattutto perché la sua intera filosofia è
incentrata sul senso del tragico.
Egli stesso dirà (Ecce homo),
ricordando la La nascita della tragedia: “Ho il diritto di
considerarmi il primo filosofo tragico, cioè l'estrema
antitesi e l'antipodo di un filosofo pessimista. Prima di me non
esisteva questa trasposizone dell'elemento dionisiaco in pathos
filosofico: mancava la saggezza tragica” (Eh nt 3)
Vedremo questo analizzando La nascita della tragedia.
Ma come premessa potremmo dire che tragica è
stata anche tutta la vicenda personale di questo grande e controverso
filosofo, e non voglio rifermi né agli ultimi undici anni
della sua vita, i cosiddetti anni della follia (vera o presunta che
fosse) e nemmeno alle incomprensioni di cui fu vittima spesso durante
la sua vita, bensì alla vicenda delle maldestre
interpretazioni del suo pensiero.
Come è noto ormai
a molti, storicamente non esiste un pensatore più mal trattato
di Nietzsche. La sua personalità e il suo pensiero hanno
dovuto sopportare la curiosità degli animi più volgari
e soddisfare il gusto degli interpreti più corrotti. Spesso le
sue parole sono state utilizzate per sostenere gli scopi più
esecrabili. Gli è toccato di essere bandito per colpa delle
allucinazioni di animi patologicamente deviati.
Proprio considerando le
cattive e perverse interpretazioni di Nietzsche, Giorgio Colli
(curatore insieme a Mazzino Montinari delle sue Opere)
sente il dovere di avvertire coloro che rimangono affascinanti dalle
sue parole.
Leggiamo l'aforisma
Citazioni proibite : “Un falsario è chi
interpreta Nietzsche utilizzando le sue citazioni, perché gli
farà dire tutto quello che vorrà lui, aggeggiando a suo
piacimento parole e frasi auetentiche. Nella miniera di questo
pensatore è contenuto ogni metallo: Nietzsche ha detto tutto e
il contrario di tutto. E in generale è disonesto servirsi
delle citazioni di Nietzsche parlando di lui, poiché così
si dà valore alle proprie parole con la suggestione che
suscita l'introduzione delle sue” (Dopo Nietzsche
196).
Per cogliere
qualcosa di questo complesso e esaltante enigma di nome Nietzsche,
bisogna stabilire un rapporto profondo che consenta di cogliere in
lui - al di là delle maschere, delle commedie e delle
polemiche del momento, che Nietzsche assume spesso - un sottofondo
immutabile, un atteggiamento fondamentale che è quello della
grande filosofia: il distacco dagli interessi sociali e politici e il
tentativo di cogliere e affermare i valori essenziali della vita.
Ed è
esattamente il legame con i Greci quello che ci consente di cogliere
il Nietzsche più autentico.
La tragedia,
dunque, secondo Nietzsche la più profonda manifestazione
del genio ellenico.
La nostra analisi
comprende le due innovazioni che Nietzsche stesso a distanza di anni
(cfr. Ecce homo) considera come i risultati più importanti della sua
opera:
- la comprensione del dionisiaco
- la comprensione del socratismo
Con quest'opera
Nietzsche ci offre un'estetica fondata sulla metafisica
schopenhaueriana. Come per Schopenhauer anche per Nietzsche la vita è
dolore. Del resto tutti i grandi del passato si sono espressi in
questo senso (Tucidide, Shakespeare, Leopardi, Dostoevskij). Il
dolore è visto sia nel mondo dell'apparenza sia nel mondo
della volontà, anzi per meglio dire: il dolore che si presenta
nell'apparenza non è che la manifestazione di una sofferenza,
di una mancanza, di una insufficienza che sta alla radice delle cose.
Nietzsche come
Schopenhauer parla di “sventura nell’essenza delle cose” e di
“contraddizione nel cuore del mondo”.
Ma qui l'approccio
al problema non è né teoretico né etico, bensì
estetico; quindi l'arte, poiché secondo lui “solo come
fenomeno estetico l'esistenza e il mondo appaiono giustificati”.
Guardando e
imparando dai Greci, più che alla filosofia – Nietzsche
secondo Colli non avrebbe compreso completamente l'eccellenza
speculativa dei Sapienti – il favore di Nietzsche va alla tragedia.
La nascita
dell’arte è legata alla duplicità dell’apollineo e
del dionisiaco. Apollo e Dioniso sono due divinità artistiche.
Nel mondo greco sussiste un’enorme contrasto (per origine e fine)
fra l’arte dello scultore, apollinea, e l’arte non figurativa
della musica, dionisiaca.
Per meglio
comprenderli Nietzsche ci invita a immaginare questi due impulsi
artistici come due fenomeni fisiologici: il sogno e l’ebbrezza.
Nel sogno
apparvero le magnifiche figure degli dèi, allo scultore; e
anche il poeta interrogato sui segreti della creazione poetica
avrebbe ugualmente ricordato il sogno. La bella parvenza dei mondi
del sogno è il presupposto di ogni arte figurativa, tuttavia
nonostante la vita suprema di questa realtà sognata traspare
in lui il sentimento della sua illusione. L’artista gioca col
sogno, sa della sua illusione, ma sperimenta in esso tutta la ‘divina
commedia’ della vita. Questa giocosa necessità del sogno è
espressa da Apollo, dio di tutte le capacità figurative.
La superiore verità,
la perfezione di questi stati, contrastano con la realtà della
vita quotidiana. Nell’immagine di Apollo troviamo: moderata
limitazione, libertà dalle emozioni più violente, un
occhio solare. Apollo è l’incrollabile fiducia nel
principium individuationis; il placido acquietarsi di colui che da
esso è dominato. Apollo insomma è inteso come
espressione sublime, magnifica immagine del principium
individuationis.
Alla base
dell’ebbrezza invece c’è l’orrore che afferra
l’uomo quando improvvisamente perde fiducia nelle forme di
conoscenza dell’apparenza, in quanto
il principio di ragione
sembra soffrire un’eccezione in qualcuna delle sue
configurazioni. A cui si aggiunge un estatico rapimento che sale
dall’intima profondità della natura.
Con la violazione
del principium individuationis, abbiamo l’essenza del dionisiaco.
Nella esaltazione degli impulsi dionisiaci l’elemento soggettivo
svanisce in un completo oblio di sé. Sotto l’incantesimo del
dionisiaco si infrangono le ostili delimitazioni che la necessità,
l’arbitrio e la moda hanno stabilito. Si restringe il legame tra
uomo e uomo e si giunge a una riconciliazione con la natura.
Strappato il velo di Maia, l’uomo si ritrova davanti alla
misteriosa unità
originaria. L’uomo non è più artista (come nel
sogno), è divenuto opera d’arte. Si rivela qui,
nell’ebbrezza, il potere artistico dell’intera natura.
Cosicché
mentre
Apollo è
presentato come il genio trasfiguratore del principium
individuationis, grazie a cui soltanto si può conseguire
davvero la liberazione nell’illusione; per contro nel mistico grido
di giubilo di Dioniso la catena dell’individuazione viene
spezzata e si apre la via verso la madre dell’essere, verso
l’essenza intima delle cose.
E mentre l'artista
apollineo supera la sofferenza dell’individuo con una luminosa
glorificazione dell’eternità dell’apparenza, con la
bellezza che vince la sofferenza che inerisce alla vita (qui il
dolore viene in un certo senso fatto scomparire dai tratti della
natura).
Il musicista dionisiaco
invece è, senza alcuna immagine, egli stesso totalmente e
unicamente il dolore originario stesso e l’eco originario di esso.
Ed è proprio la
musica in quanto arte dionisiaca a generare il mito, e precisamente
il mito tragico: il mito che parla attraverso immagini apollinee
della conoscenza dionisiaca. La musica, qui intesa come interiorità
pura, seguendo la lezione schopenhaueriana, cerca di pervenire a una
simbolizzazione e trova l’espressione simbolica per la sua vera e
propria sapienza dionisiaca nella tragedia e in genere nel concetto
del tragico.
Pertanto, il dramma
è una rappresentazione apollinea sensibile di conoscenze e
moti dionisiaci. [forma apollinea e contenuto dionisiaco]
Il mito tragico è
da intendere come una simbolizzazione della sapienza dionisiaca
attraverso mezzi artistici apollinei.
Il contenuto del mito
tragico è un accadimento epico con la glorificazione dell'eroe
in lotta.
Anche
la bellezza di cui è simbolo Apollo poggia su un
fondamento, mascherato, di sofferenza e conoscenza. Il greco conobbe
e sentì i terrori e le atrocità dell’esistenza; per
poter vivere dovette per profondissima necessità creare gli
dèi olimpici. Un popolo che aveva un talento così unico
per il soffrire come avrebbe potuto sopportare l’esistenza se
questa non gli fosse stata mostrata nei suoi dèi circonfusa di
una gloria superiore. Gli dèi giustificano la vita vivendola
essi stessi. Lo stesso impulso che suscita l’arte come
completamento dell’esistenza, che induce a continuare a vivere,
fece nascere anche il mondo olimpico.
L'artista tragico
condivide con la sfera artistica apollinea il piacere totale per
l'illusione e la contemplazione, e in pari tempo nega questo piacere
e trova un appagamento ancora maggiore nell'annullamento del mondo
visibile dell'apparenza.
Dunque per
riassumere:
Il dionisiaco è
l’eroico impulso verso l’universale, è il tentativo di
oltrepassare la barriera dell’individuazione e di voler essere lui
stesso l’unica essenza del mondo. Nella sua forma più antica
la tragedia aveva per oggetto solo i dolori di Dioniso. L’unico
eroe presente sulla scena, Prometeo o Edipo sono soltanto maschere di
quell’eroe originario.
L'eroe patisce in sé
la contraddizione originaria nascosta nelle cose, vale a dire
commette un delitto e soffre; l'eroe in lotta preso nella rete della
volontà individuale sperimenta i dolori dell'individuazione.
E' questa dunque la
visione del mondo della tragedia (la sua dottrina mistica):
l'individuazione come causa prima del male.
Mentre l'arte è
intesa come lieta speranza che il dominio dell'individuazione possa
essere spezzato.
Dunque la
conoscenza tragica per poter essere sopportata ha bisogno dell'arte
come protezione e rimedio.
Anche per
Schopenhauer con la tragedia abbiamo la rappresentazione della vita
nel suo aspetto terribile. In essa si esprime il dolore senza nome –
l’affanno dell’umanità – il trionfo della perfidia –
lo scherno del caso - il fatale precipizio dei giusti – ecc. Si ha
con essa un significante segno intorno alla natura del mondo e
dell’essere. La tragedia esprime il contrasto della volontà
con se stessa, che qui, nel grado supremo della sua oggettività,
dispiegata in tutta la sua pienezza, tremendamente balza alla luce.
La volontà (la cosa in sé) nel dolore dell’umanità
si fa visibile.
Ma in Nietzsche non
c'è una lettura pessimistica della tragedia.
La tragedia prova
che i Greci non erano pessimisti. Proprio per mezzo di essa
superarono il pessimismo. In essa c'è la consolazione
metafisica per cui in fondo alle cose la vita è, a dispetto di
ogni mutare delle apparenze, indistruttibilmente potente e gioiosa.
La
gioia metafisica per ciò che è tragico è una
traduzione della sapienza dionisiaca istintiva e inconscia nel
linguaggio dell’immagine: l’eroe, la più alta apparenza
della volontà, viene con nostra gioia negato, perché è
comunque solo apparenza, e la vita eterna della volontà non
viene toccata dalla sua distruzione.
Anche se, come dice
Colli, Nietzsche è un filosofo nella misura in cui si rivela
l'unico schopenhaueriano autentico, è il caso di sottolineare
ora la differenza tra la metafisica di Nietzsche e quella di
Schopenhauer, che già emerge in questo scritto giovanile, ma
che successivamente sarà più marcata.
Lo facciamo
mettendo a confronto il concetto di volontà di vivere di
Schopenhauer con il concetto di volontà di potenza di
Nietzsche
[L’espressione
Wille zur Macht compare per la prima volta nell’inverno
1880/81, sviluppata negli anni 1884/85, elaborata in Al di là
del bene e del male (JGB) e in Genealogia della morale
(GM)]
Semplificando un
po’, il concetto di volontà di potenza si riconduce a quello
schopenhaueriano di volontà di vivere, ma mentre Schopenhauer
ha dato del suo concetto una definizione chiara, altrettanto non si
può dire di Nietzsche. Come quello schopenhaueriano il
concetto di Nietzsche è la concessione di un valore noumenico
al principium individuationis; in entrambi i casi si tratta di una
sostanza irrazionale che è in noi e di cui diventiamo
partecipi per un’apprensione immediata. Nonostante l’intenzione
contraria è un atteggiamento metafisico.
La teoria prende le
mosse dal linguaggio del suo periodo cosiddetto ‘positivistico’,
dalle formulazioni meccanicistiche e dal concetto di forza. Secondo
Nietzsche questo concetto ha bisogno di un completamento: gli si deve
assegnare un mondo interno (appunto una volontà di potenza),
cioè un insaziabile desiderio di manifestare la propria
potenza. Dunque un sostrato non fisico, un desiderio, un conatus.
(Tuttavia a differenza di Spinoza, la volontà più che a
conservarsi, tende ad espandersi).
La volontà
di potenza è l’ultimo fatto
[termine positivistico] a cui perveniamo scendendo in profondità
(Fr. post. 1884/85), essa è la condizione che
rende possibile la vita in generale. E’ la condizione della
coscienza, dei giudizi, delle valutazioni.
Il risultato
notevole è questo: Nietzsche dice che bisogna considerare
tutti i fenomeni (la morale, la storia, ogni accadere cosmico…)
come meri sintomi di un accadere interno.
La vita non tende
alla felicità, ma alla potenza. Ma a tendere non sono gli
individui – che non hanno vera realtà – bensì le
loro sfere di potenza, inafferrabili. L’individuazione è un
inganno di cui si avvolge la volontà di potenza.
La differenza tra
Nietzsche e Schopenhauer rispetto a questa sostanza è che
Schopenhauer vuole negarla, la rifiuta, mentre Nietzsche vuole
affermarla, l’accetta. Non nel principio sta l’originalità
di Nietzsche, ma nella reazione al principio (atteggiamento che
risale agli anni giovanili della Nascita della
tragedia). Questo tema trova un’espressione simbolica in
Dioniso, che non è più un simbolo estetico, ma ora
emerge sul piano teoretico ed etico.
In JGB Dioniso
diventa colui che sa
che l’essenza del mondo è volontà di potenza e
inoltre accetta questo e vuole
che sia così. In JGB e in GM è il concetto di dolore
che costituisce una pietra di paragone per la filosofia della volontà
di potenza. Nietzsche non parla della volontà di potenza in
sé; ma dal punto di vista del dolore, del giudizio sul dolore.
La volontà
di potenza porta con sé il dolore: questa è la
conoscenza terribile che Nietzsche chiama dionisiaca. Qualsiasi
morale, qualsiasi concezione del mondo voglia rifiutare il dolore
(come fanno il buddismo e Schopenhauer) è qualcosa che rifiuta
la volontà di potenza, la vita stessa.
La debolezza del
raziocinio moderno sta in questo rifiuto del dolore (cfr. JGB, 202;
225). La sostanza del mondo non deve essere velata, nascosta
ipocritamente. E se nell’abisso della vita c’è qualcosa di
orrendo, il pathos della verità ci impone di dichiararlo.
Peggiori non sono
coloro che lo indicano e cercano di evitarlo, bensì coloro che
vogliono far credere che il dolore non è nel profondo e che si
può togliere di mezzo (JGB, 44). Chi rifiuta il dolore
percorre le strade della decadenza e del nichilismo.
Il concetto di
dolore dalla psicologia posteriore sarà giudicato in modo
opposto a quello di Nietzsche, il quale quasi prevede la cosa quando
dice: «per esempio, quando si vuole dimostrare l’erroneità
della sofferenza, nell’ingenuo presupposto che la sofferenza debba
sparire, non appena l’errore è in essa conosciuto…».
Questo confronto
tra i due filosofi ci permette di recuperare l'altro risultato
importante che Nietzsche riteneva aver espresso nella Nascita
della tragedia:
- La comprensione del socratismo.
La tragedia morì
suicida. Nella commedia attica nuova sopravvive la forma degenerata
della tragedia. Con Euripide, lo spettatore, l’uomo della
vita quotidiana appare sulla scena. I poeti tragici anteriori si
erano guardati dal riprodurre la realtà, Euripide si vanta di
aver liberato l’arte tragica dalla sua pomposa corpulenza.
La tendenza di
Euripide fu di eliminare dalla tragedia l’elemento dionisiaco
originario. Sulla scena prendeva a parlare la mediocrità
cittadina; lo spettatore vede il suo sosia. Egli rappresentava la
vita e la pratica comuni, di cui ognuno era capace di giudicare. Con
la commedia assistiamo al trionfo della furbizia, della scaltrezza,
della volubilità, dell’arbitrio, ecc.
Con la morte della
tragedia il Greco ha perso la fede nella propria immortalità.
Secondo Nietzsche
Euripide aveva scorto nella tragedia una enigmatica profondità,
l’incommensurabilità, la problematica dei miti: in cui le
figure accennano qualcosa di incerto e incerta è la soluzione
dei problemi etici.
In lui si esprime
il talento critico, in cui l’intelletto è considerato la
vera e propria radice di ogni godimento e creazione. Egli si guarda
intorno per scoprire chi come lui non capisce la tragedia e vede
Socrate. Per bocca di Euripide non parlava Dioniso o Apollo,
ma un nuovo demone di recente nascita: Socrate (il quale pare
aiutasse Euripide a poetare).
Ecco
l'opposto del dionisiaco: la tendenza socratica (con l’aiuto
della quale Euripide vinse contro la tragedia). Socrate, l’unico
che ammetteva di non sapere, vedeva che gli altri (statisti, oratori,
poeti) presumevano di sapere, ma non avevano una idea giusta della
loro professione e che la esercitavano per istinto, solo per
istinto. Per Socrate solo chi sa è virtuoso.
Ecco l'essenza
dunque del socratismo
estetico, la cui legge
suprema suona: tutto
deve essere razionale per essere bello. Euripide
è come poeta l’eco delle sue cognizioni coscienti:
l’intelletto incluso nel creare artistico.
Socrate,
individuo non mistico, in cui mai arse la follia dell’entusiasmo
artistico. Doveva scorgere nella tragedia qualcosa di assolutamente
irrazionale,
che annoverava tra le arti lusingatrici, che non rappresentano
l’utile.
Socrate, l’eroe
dialettico del dramma platonico (nei dialoghi), come l’eroe
euripideo, deve difendere la sua azione con ragioni e controragioni:
l’eroe virtuoso deve essere dialettico. C’è un ottimismo
nella natura della dialettica, che celebra la propria festa in ogni
conclusione. La morte della tragedia sta in queste tre formule
socratiche: la virtù è sapere; si pecca solo per
ignoranza; il virtuoso è felice.
Questa
idea illusoria viene al mondo per la prima volta con Socrate:
quella incrollabile fede che il pensiero giunga, seguendo il filo
conduttore della causalità, fin nei più profondi abissi
dell’essere, e che il pensiero sia in grado non solo di conoscere,
ma addirittura di correggere
l’essere.
E’ la sublime
illusione data dalla Scienza. La scienza opposta alla
concezione tragica del mondo. L’influenza di Socrate si è
allargata sulla posterità sino a questo momento. Nel
mondo odierno assistiamo alla lotta tra la conoscenza insaziabile e
ottimistica e il bisogno tragico dell’arte.
Tutto il mondo
moderno è preso nella rete della cultura socratica, e trova il
suo ideale nell’ uomo teoretico, che lavora al servizio della
scienza. La scienza crede nella conoscibilità e attingibilità
di tutti gli enigmi del mondo, eleva l’apparenza a unica e suprema
realtà e la pone al di sopra dell’intima vera essenza delle
cose, rendendo impossibile la conoscenza di quest’ultima.
E ciò che
notava Nietzsche ai suoi tempi, cioè che “tutti i nostri
mezzi educativi propongono questo ideale”, è per noi ancora
purtroppo “tragicamente” vero!
La cultura tragica
pone al posto della scienza la sapienza, che non si lascia ingannare
dalla scienza e guarda all’immagine totale del mondo, cercando di
cogliere, con simpatetico sentimento d’amore, l’eterna sofferenza
come sofferenza propria.
Per concludere.
Quali risultati possiamo trarre dalla riflessione nietzscheana?
Questa opposizione tra istinto e razionalità, tra verità
e menzogna.
Da una parte
l'affermazione suprema della vita nata dalla sovrabbondanza, dalla
pienezza; un dire sì senza riserve al dolore stesso, alla
colpa stessa, a tutto ciò che l'esistenza ha di problematico e
ignoto.
Dall'altra un
istinto degenerato, che si rivolta contro la vita con rancore
sotterraneo, in cui per viltà si fugge dalla realtà.
Come dice nel
Crepuscolo degli idoli nella psicologia dello stato dionisiaco
si esprime il fatto fondamentale dell'istinto ellenico, cioè
la sua volontà di vivere. E affinché esista l'eterno
piacere del creare, affinché la volontà di vita affermi
se stessa eternamente, deve esistere eternamente il dolore. Il dolore
è perciò santificato. Il dionisiaco è
religiosamente sentito come il più profondo istinto vitale,
come straripante senso della vita, all'interno del quale il dolore
agisce come uno stimolante.
Questa secondo
Nietzsche è la chiave per intendere il sentimento del tragico.