giovedì 30 luglio 2015

Nietzsche e il senso del tragico

Nell'ambito di queste lezioni sul senso del tragico non poteva mancare la riflessione di Nietzsche. 
Non solo perché il termine compare in due sue importanti opere giovanili, e cioè La nascita della tragedia del 1871 e La filosofia nell'epoca tragica dei Greci del 1873, ma soprattutto perché la sua intera filosofia è incentrata sul senso del tragico.
Egli stesso dirà (Ecce homo), ricordando la La nascita della tragedia: “Ho il diritto di considerarmi il primo filosofo tragico, cioè l'estrema antitesi e l'antipodo di un filosofo pessimista. Prima di me non esisteva questa trasposizone dell'elemento dionisiaco in pathos filosofico: mancava la saggezza tragica” (Eh nt 3)

Vedremo questo analizzando La nascita della tragedia.
Ma come premessa potremmo dire che tragica è stata anche tutta la vicenda personale di questo grande e controverso filosofo, e non voglio rifermi né agli ultimi undici anni della sua vita, i cosiddetti anni della follia (vera o presunta che fosse) e nemmeno alle incomprensioni di cui fu vittima spesso durante la sua vita, bensì alla vicenda delle maldestre interpretazioni del suo pensiero.
Come è noto ormai a molti, storicamente non esiste un pensatore più mal trattato di Nietzsche. La sua personalità e il suo pensiero hanno dovuto sopportare la curiosità degli animi più volgari e soddisfare il gusto degli interpreti più corrotti. Spesso le sue parole sono state utilizzate per sostenere gli scopi più esecrabili. Gli è toccato di essere bandito per colpa delle allucinazioni di animi patologicamente deviati.
Proprio considerando le cattive e perverse interpretazioni di Nietzsche, Giorgio Colli (curatore insieme a Mazzino Montinari delle sue Opere) sente il dovere di avvertire coloro che rimangono affascinanti dalle sue parole.
Leggiamo l'aforisma Citazioni proibite : “Un falsario è chi interpreta Nietzsche utilizzando le sue citazioni, perché gli farà dire tutto quello che vorrà lui, aggeggiando a suo piacimento parole e frasi auetentiche. Nella miniera di questo pensatore è contenuto ogni metallo: Nietzsche ha detto tutto e il contrario di tutto. E in generale è disonesto servirsi delle citazioni di Nietzsche parlando di lui, poiché così si dà valore alle proprie parole con la suggestione che suscita l'introduzione delle sue” (Dopo Nietzsche 196).
Per cogliere qualcosa di questo complesso e esaltante enigma di nome Nietzsche, bisogna stabilire un rapporto profondo che consenta di cogliere in lui - al di là delle maschere, delle commedie e delle polemiche del momento, che Nietzsche assume spesso - un sottofondo immutabile, un atteggiamento fondamentale che è quello della grande filosofia: il distacco dagli interessi sociali e politici e il tentativo di cogliere e affermare i valori essenziali della vita.
Ed è esattamente il legame con i Greci quello che ci consente di cogliere il Nietzsche più autentico.

La tragedia, dunque, secondo Nietzsche la più profonda manifestazione del genio ellenico.
 La nostra analisi comprende le due innovazioni che Nietzsche stesso a distanza di anni (cfr. Ecce homo) considera come i risultati più importanti della sua opera: 
  • la comprensione del dionisiaco
  • la comprensione del socratismo

Con quest'opera Nietzsche ci offre un'estetica fondata sulla metafisica schopenhaueriana. Come per Schopenhauer anche per Nietzsche la vita è dolore. Del resto tutti i grandi del passato si sono espressi in questo senso (Tucidide, Shakespeare, Leopardi, Dostoevskij). Il dolore è visto sia nel mondo dell'apparenza sia nel mondo della volontà, anzi per meglio dire: il dolore che si presenta nell'apparenza non è che la manifestazione di una sofferenza, di una mancanza, di una insufficienza che sta alla radice delle cose.
Nietzsche come Schopenhauer parla di “sventura nell’essenza delle cose” e di “contraddizione nel cuore del mondo”.
Ma qui l'approccio al problema non è né teoretico né etico, bensì estetico; quindi l'arte, poiché secondo lui “solo come fenomeno estetico l'esistenza e il mondo appaiono giustificati”.
Guardando e imparando dai Greci, più che alla filosofia – Nietzsche secondo Colli non avrebbe compreso completamente l'eccellenza speculativa dei Sapienti – il favore di Nietzsche va alla tragedia.

La nascita dell’arte è legata alla duplicità dell’apollineo e del dionisiaco. Apollo e Dioniso sono due divinità artistiche. Nel mondo greco sussiste un’enorme contrasto (per origine e fine) fra l’arte dello scultore, apollinea, e l’arte non figurativa della musica, dionisiaca.
Per meglio comprenderli Nietzsche ci invita a immaginare questi due impulsi artistici come due fenomeni fisiologici: il sogno e l’ebbrezza.
Nel sogno apparvero le magnifiche figure degli dèi, allo scultore; e anche il poeta interrogato sui segreti della creazione poetica avrebbe ugualmente ricordato il sogno. La bella parvenza dei mondi del sogno è il presupposto di ogni arte figurativa, tuttavia nonostante la vita suprema di questa realtà sognata traspare in lui il sentimento della sua illusione. L’artista gioca col sogno, sa della sua illusione, ma sperimenta in esso tutta la ‘divina commedia’ della vita. Questa giocosa necessità del sogno è espressa da Apollo, dio di tutte le capacità figurative.
La superiore verità, la perfezione di questi stati, contrastano con la realtà della vita quotidiana. Nell’immagine di Apollo troviamo: moderata limitazione, libertà dalle emozioni più violente, un occhio solare. Apollo è l’incrollabile fiducia nel principium individuationis; il placido acquietarsi di colui che da esso è dominato. Apollo insomma è inteso come espressione sublime, magnifica immagine del principium individuationis.

Alla base dell’ebbrezza invece c’è l’orrore che afferra l’uomo quando improvvisamente perde fiducia nelle forme di conoscenza dell’apparenza, in quanto il principio di ragione sembra soffrire un’eccezione in qualcuna delle sue configurazioni. A cui si aggiunge un estatico rapimento che sale dall’intima profondità della natura.
Con la violazione del principium individuationis, abbiamo l’essenza del dionisiaco. Nella esaltazione degli impulsi dionisiaci l’elemento soggettivo svanisce in un completo oblio di sé. Sotto l’incantesimo del dionisiaco si infrangono le ostili delimitazioni che la necessità, l’arbitrio e la moda hanno stabilito. Si restringe il legame tra uomo e uomo e si giunge a una riconciliazione con la natura. Strappato il velo di Maia, l’uomo si ritrova davanti alla misteriosa unità originaria. L’uomo non è più artista (come nel sogno), è divenuto opera d’arte. Si rivela qui, nell’ebbrezza, il potere artistico dell’intera natura.

Cosicché mentre
Apollo è presentato come il genio trasfiguratore del principium individuationis, grazie a cui soltanto si può conseguire davvero la liberazione nell’illusione; per contro nel mistico grido di giubilo di Dioniso la catena dell’individuazione viene spezzata e si apre la via verso la madre dell’essere, verso l’essenza intima delle cose.
E mentre l'artista apollineo supera la sofferenza dell’individuo con una luminosa glorificazione dell’eternità dell’apparenza, con la bellezza che vince la sofferenza che inerisce alla vita (qui il dolore viene in un certo senso fatto scomparire dai tratti della natura).
Il musicista dionisiaco invece è, senza alcuna immagine, egli stesso totalmente e unicamente il dolore originario stesso e l’eco originario di esso.
Ed è proprio la musica in quanto arte dionisiaca a generare il mito, e precisamente il mito tragico: il mito che parla attraverso immagini apollinee della conoscenza dionisiaca. La musica, qui intesa come interiorità pura, seguendo la lezione schopenhaueriana, cerca di pervenire a una simbolizzazione e trova l’espressione simbolica per la sua vera e propria sapienza dionisiaca nella tragedia e in genere nel concetto del tragico.
Pertanto, il dramma è una rappresentazione apollinea sensibile di conoscenze e moti dionisiaci. [forma apollinea e contenuto dionisiaco]
Il mito tragico è da intendere come una simbolizzazione della sapienza dionisiaca attraverso mezzi artistici apollinei.
Il contenuto del mito tragico è un accadimento epico con la glorificazione dell'eroe in lotta.

Anche la bellezza di cui è simbolo Apollo poggia su un fondamento, mascherato, di sofferenza e conoscenza. Il greco conobbe e sentì i terrori e le atrocità dell’esistenza; per poter vivere dovette per profondissima necessità creare gli dèi olimpici. Un popolo che aveva un talento così unico per il soffrire come avrebbe potuto sopportare l’esistenza se questa non gli fosse stata mostrata nei suoi dèi circonfusa di una gloria superiore. Gli dèi giustificano la vita vivendola essi stessi. Lo stesso impulso che suscita l’arte come completamento dell’esistenza, che induce a continuare a vivere, fece nascere anche il mondo olimpico.
L'artista tragico condivide con la sfera artistica apollinea il piacere totale per l'illusione e la contemplazione, e in pari tempo nega questo piacere e trova un appagamento ancora maggiore nell'annullamento del mondo visibile dell'apparenza.
Dunque per riassumere:
Il dionisiaco è l’eroico impulso verso l’universale, è il tentativo di oltrepassare la barriera dell’individuazione e di voler essere lui stesso l’unica essenza del mondo. Nella sua forma più antica la tragedia aveva per oggetto solo i dolori di Dioniso. L’unico eroe presente sulla scena, Prometeo o Edipo sono soltanto maschere di quell’eroe originario.
L'eroe patisce in sé la contraddizione originaria nascosta nelle cose, vale a dire commette un delitto e soffre; l'eroe in lotta preso nella rete della volontà individuale sperimenta i dolori dell'individuazione.
E' questa dunque la visione del mondo della tragedia (la sua dottrina mistica): l'individuazione come causa prima del male.
Mentre l'arte è intesa come lieta speranza che il dominio dell'individuazione possa essere spezzato.
Dunque la conoscenza tragica per poter essere sopportata ha bisogno dell'arte come protezione e rimedio.
Anche per Schopenhauer con la tragedia abbiamo la rappresentazione della vita nel suo aspetto terribile. In essa si esprime il dolore senza nome – l’affanno dell’umanità – il trionfo della perfidia – lo scherno del caso - il fatale precipizio dei giusti – ecc. Si ha con essa un significante segno intorno alla natura del mondo e dell’essere. La tragedia esprime il contrasto della volontà con se stessa, che qui, nel grado supremo della sua oggettività, dispiegata in tutta la sua pienezza, tremendamente balza alla luce. La volontà (la cosa in sé) nel dolore dell’umanità si fa visibile.

Ma in Nietzsche non c'è una lettura pessimistica della tragedia.
La tragedia prova che i Greci non erano pessimisti. Proprio per mezzo di essa superarono il pessimismo. In essa c'è la consolazione metafisica per cui in fondo alle cose la vita è, a dispetto di ogni mutare delle apparenze, indistruttibilmente potente e gioiosa.
La gioia metafisica per ciò che è tragico è una traduzione della sapienza dionisiaca istintiva e inconscia nel linguaggio dell’immagine: l’eroe, la più alta apparenza della volontà, viene con nostra gioia negato, perché è comunque solo apparenza, e la vita eterna della volontà non viene toccata dalla sua distruzione.
Anche se, come dice Colli, Nietzsche è un filosofo nella misura in cui si rivela l'unico schopenhaueriano autentico, è il caso di sottolineare ora la differenza tra la metafisica di Nietzsche e quella di Schopenhauer, che già emerge in questo scritto giovanile, ma che successivamente sarà più marcata.
Lo facciamo mettendo a confronto il concetto di volontà di vivere di Schopenhauer con il concetto di volontà di potenza di Nietzsche
[L’espressione Wille zur Macht compare per la prima volta nell’inverno 1880/81, sviluppata negli anni 1884/85, elaborata in Al di là del bene e del male (JGB) e in Genealogia della morale (GM)]
Semplificando un po’, il concetto di volontà di potenza si riconduce a quello schopenhaueriano di volontà di vivere, ma mentre Schopenhauer ha dato del suo concetto una definizione chiara, altrettanto non si può dire di Nietzsche. Come quello schopenhaueriano il concetto di Nietzsche è la concessione di un valore noumenico al principium individuationis; in entrambi i casi si tratta di una sostanza irrazionale che è in noi e di cui diventiamo partecipi per un’apprensione immediata. Nonostante l’intenzione contraria è un atteggiamento metafisico.
La teoria prende le mosse dal linguaggio del suo periodo cosiddetto ‘positivistico’, dalle formulazioni meccanicistiche e dal concetto di forza. Secondo Nietzsche questo concetto ha bisogno di un completamento: gli si deve assegnare un mondo interno (appunto una volontà di potenza), cioè un insaziabile desiderio di manifestare la propria potenza. Dunque un sostrato non fisico, un desiderio, un conatus. (Tuttavia a differenza di Spinoza, la volontà più che a conservarsi, tende ad espandersi).
La volontà di potenza è l’ultimo fatto [termine positivistico] a cui perveniamo scendendo in profondità (Fr. post. 1884/85), essa è la condizione che rende possibile la vita in generale. E’ la condizione della coscienza, dei giudizi, delle valutazioni.
Il risultato notevole è questo: Nietzsche dice che bisogna considerare tutti i fenomeni (la morale, la storia, ogni accadere cosmico…) come meri sintomi di un accadere interno.
La vita non tende alla felicità, ma alla potenza. Ma a tendere non sono gli individui – che non hanno vera realtà – bensì le loro sfere di potenza, inafferrabili. L’individuazione è un inganno di cui si avvolge la volontà di potenza.
La differenza tra Nietzsche e Schopenhauer rispetto a questa sostanza è che Schopenhauer vuole negarla, la rifiuta, mentre Nietzsche vuole affermarla, l’accetta. Non nel principio sta l’originalità di Nietzsche, ma nella reazione al principio (atteggiamento che risale agli anni giovanili della Nascita della tragedia). Questo tema trova un’espressione simbolica in Dioniso, che non è più un simbolo estetico, ma ora emerge sul piano teoretico ed etico.
In JGB Dioniso diventa colui che sa che l’essenza del mondo è volontà di potenza e inoltre accetta questo e vuole che sia così. In JGB e in GM è il concetto di dolore che costituisce una pietra di paragone per la filosofia della volontà di potenza. Nietzsche non parla della volontà di potenza in sé; ma dal punto di vista del dolore, del giudizio sul dolore.
La volontà di potenza porta con sé il dolore: questa è la conoscenza terribile che Nietzsche chiama dionisiaca. Qualsiasi morale, qualsiasi concezione del mondo voglia rifiutare il dolore (come fanno il buddismo e Schopenhauer) è qualcosa che rifiuta la volontà di potenza, la vita stessa.
La debolezza del raziocinio moderno sta in questo rifiuto del dolore (cfr. JGB, 202; 225). La sostanza del mondo non deve essere velata, nascosta ipocritamente. E se nell’abisso della vita c’è qualcosa di orrendo, il pathos della verità ci impone di dichiararlo.
Peggiori non sono coloro che lo indicano e cercano di evitarlo, bensì coloro che vogliono far credere che il dolore non è nel profondo e che si può togliere di mezzo (JGB, 44). Chi rifiuta il dolore percorre le strade della decadenza e del nichilismo.

Il concetto di dolore dalla psicologia posteriore sarà giudicato in modo opposto a quello di Nietzsche, il quale quasi prevede la cosa quando dice: «per esempio, quando si vuole dimostrare l’erroneità della sofferenza, nell’ingenuo presupposto che la sofferenza debba sparire, non appena l’errore è in essa conosciuto…».

Questo confronto tra i due filosofi ci permette di recuperare l'altro risultato importante che Nietzsche riteneva aver espresso nella Nascita della tragedia:
  • La comprensione del socratismo.
La tragedia morì suicida. Nella commedia attica nuova sopravvive la forma degenerata della tragedia. Con Euripide, lo spettatore, l’uomo della vita quotidiana appare sulla scena. I poeti tragici anteriori si erano guardati dal riprodurre la realtà, Euripide si vanta di aver liberato l’arte tragica dalla sua pomposa corpulenza.
La tendenza di Euripide fu di eliminare dalla tragedia l’elemento dionisiaco originario. Sulla scena prendeva a parlare la mediocrità cittadina; lo spettatore vede il suo sosia. Egli rappresentava la vita e la pratica comuni, di cui ognuno era capace di giudicare. Con la commedia assistiamo al trionfo della furbizia, della scaltrezza, della volubilità, dell’arbitrio, ecc.
Con la morte della tragedia il Greco ha perso la fede nella propria immortalità.
Secondo Nietzsche Euripide aveva scorto nella tragedia una enigmatica profondità, l’incommensurabilità, la problematica dei miti: in cui le figure accennano qualcosa di incerto e incerta è la soluzione dei problemi etici.
In lui si esprime il talento critico, in cui l’intelletto è considerato la vera e propria radice di ogni godimento e creazione. Egli si guarda intorno per scoprire chi come lui non capisce la tragedia e vede Socrate. Per bocca di Euripide non parlava Dioniso o Apollo, ma un nuovo demone di recente nascita: Socrate (il quale pare aiutasse Euripide a poetare).

Ecco l'opposto del dionisiaco: la tendenza socratica (con l’aiuto della quale Euripide vinse contro la tragedia). Socrate, l’unico che ammetteva di non sapere, vedeva che gli altri (statisti, oratori, poeti) presumevano di sapere, ma non avevano una idea giusta della loro professione e che la esercitavano per istinto, solo per istinto. Per Socrate solo chi sa è virtuoso.

Ecco l'essenza dunque del socratismo estetico, la cui legge suprema suona: tutto deve essere razionale per essere bello. Euripide è come poeta l’eco delle sue cognizioni coscienti: l’intelletto incluso nel creare artistico.
Socrate, individuo non mistico, in cui mai arse la follia dell’entusiasmo artistico. Doveva scorgere nella tragedia qualcosa di assolutamente irrazionale, che annoverava tra le arti lusingatrici, che non rappresentano l’utile.
Socrate, l’eroe dialettico del dramma platonico (nei dialoghi), come l’eroe euripideo, deve difendere la sua azione con ragioni e controragioni: l’eroe virtuoso deve essere dialettico. C’è un ottimismo nella natura della dialettica, che celebra la propria festa in ogni conclusione. La morte della tragedia sta in queste tre formule socratiche: la virtù è sapere; si pecca solo per ignoranza; il virtuoso è felice.
Questa idea illusoria viene al mondo per la prima volta con Socrate: quella incrollabile fede che il pensiero giunga, seguendo il filo conduttore della causalità, fin nei più profondi abissi dell’essere, e che il pensiero sia in grado non solo di conoscere, ma addirittura di correggere l’essere.
E’ la sublime illusione data dalla Scienza. La scienza opposta alla concezione tragica del mondo. L’influenza di Socrate si è allargata sulla posterità sino a questo momento. Nel mondo odierno assistiamo alla lotta tra la conoscenza insaziabile e ottimistica e il bisogno tragico dell’arte.

Tutto il mondo moderno è preso nella rete della cultura socratica, e trova il suo ideale nell’ uomo teoretico, che lavora al servizio della scienza. La scienza crede nella conoscibilità e attingibilità di tutti gli enigmi del mondo, eleva l’apparenza a unica e suprema realtà e la pone al di sopra dell’intima vera essenza delle cose, rendendo impossibile la conoscenza di quest’ultima.
E ciò che notava Nietzsche ai suoi tempi, cioè che “tutti i nostri mezzi educativi propongono questo ideale”, è per noi ancora purtroppo “tragicamente” vero!
La cultura tragica pone al posto della scienza la sapienza, che non si lascia ingannare dalla scienza e guarda all’immagine totale del mondo, cercando di cogliere, con simpatetico sentimento d’amore, l’eterna sofferenza come sofferenza propria.

Per concludere. Quali risultati possiamo trarre dalla riflessione nietzscheana? Questa opposizione tra istinto e razionalità, tra verità e menzogna.
Da una parte l'affermazione suprema della vita nata dalla sovrabbondanza, dalla pienezza; un dire sì senza riserve al dolore stesso, alla colpa stessa, a tutto ciò che l'esistenza ha di problematico e ignoto.
Dall'altra un istinto degenerato, che si rivolta contro la vita con rancore sotterraneo, in cui per viltà si fugge dalla realtà.

Come dice nel Crepuscolo degli idoli nella psicologia dello stato dionisiaco si esprime il fatto fondamentale dell'istinto ellenico, cioè la sua volontà di vivere. E affinché esista l'eterno piacere del creare, affinché la volontà di vita affermi se stessa eternamente, deve esistere eternamente il dolore. Il dolore è perciò santificato. Il dionisiaco è religiosamente sentito come il più profondo istinto vitale, come straripante senso della vita, all'interno del quale il dolore agisce come uno stimolante.
Questa secondo Nietzsche è la chiave per intendere il sentimento del tragico.