martedì 11 ottobre 2011

Nietzsche Aurora, aforisma 14

Nietzsche, Aurora (1881)

14. Significato della follia nella storia della moralità. Se nonostante quella spaventosa oppressione dell’«eticità del costume», sotto la quale vissero le comunità umane molti secoli prima della nostra èra e ancora in essa in tutto e per tutto fino ai nostri giorni (noi stessi abitiamo nel piccolo mondo dell’eccezione e per così dire nella zona cattiva); se, dico, nonostante tutto questo irruppero sempre, ancora una volta, pensieri, valutazioni, istinti nuovi ed irregolari, ciò avvenne con un accompagnamento che mette i brividi: quasi ovunque è la follia che ha aperto la strada al nuovo pensiero, che ha infranto il potere di una venerabile con­suetudine e di una superstizione. Comprendete voi perché dovette essere la follia? Qualcosa nella voce e nei gesti, così raccapricciante e imprevedibile come gli estri demoniaci del tempo atmosferico e del mare, e perciò degno di un analogo timore e rispetto? Qualcosa che portava il se­gno di un'assoluta irresponsabilità tanto evidente quanto gli spasimi e la schiuma degli epilettici, qualcosa che parve in tal modo caratterizzare il folle come maschera e stetosco­pio di una divinità? Qualcosa che dava al portatore di un nuovo pensiero persino venerazione e tremore di sé senza più rimorsi di coscienza, e lo spingeva a divenire il profeta e il martire di quello? Mentre oggi risulta ancora una volta immédiatamente constatabile che invece di un granello di sale è dato al genio un granello drogato di follia, a tutti gli uomini di una volta era molto più vicino il pensiero che, ovunque esista follia, esiste anche un granello di ge­nio e di saggezza - qualcosa di «divino», come ci si anda­va bisbigliando all'orecchio. O piuttosto, come si andava esprimendo con discreta energia. «Mercé la follia i più grandi beni sono venuti alla Grecia», diceva Platone con tutta l'antica umanità. Facciamo ancora un passo avanti: a tutti quegli uomini superiori che erano irresistibilmente at­tratti ad infrangere il giogo di una qualche eticità e a dare nuove leggi non restò nient’altro, se essi non erano realmente folli, che diventare pazzi o farsi passare per tali; e ciò vale in verità per i novatori in tutti i campi, non soltanto per chi innovava nelle istituzioni sacerdotali e politi­çhe: perfino l’innovatore del metro poetico dovette accre­ditarsi per mezzo della follia. (Da ciò, fino ad epoche molto più miti restò nei poeti una certa convenzione della follia, alla quale per esempio si richiamava Solone allorché pungo­lava gli Ateniesi alla riconquista di Salamina.) «Come si può fare i pazzi, se non lo si è e non si osa sembrarlo?». Di questo terribile ordine di idee erano preda quasi tutti gli uomini importanti della civiltà più antica; una occulta dottrina di stratagemmi e norme dietetiche s'impiantò ulte­riormente al riguardo, accanto al sentimento dell'innocen­za, anzi della santità di una tale meditazione e di tali propositi. Le ricette, per diventare, presso gli Indiani uno stre­gone, presso i cristiani del Medioevo un santo, presso i Groenlandesi un Angekok, presso i Brasiliani un Paje, sono essenzialmente le stesse: digiuni insensati, prolungata continenza sessuale, andar nel deserto, o salire su un monte oppure su una colonna, oppure «stabilirsi in un annoso pa­scolo che guardi su un lago» e non pensare assolutamente a nulla se non a ciò che può portare con sé una convul­sione e un disordine spirituale. Chi osa gettare uno sguardo nello squallore delle più amare e più inutili tribolazioni interiori, nelle quali probabilmente sono andati languendo gli uomini più fecondi di tutti i tempi? Chi osa ascoltare quei sospiri degli uomini solitari e sconvolti? «Ahimè, datemi dunque la follia, voi celesti! Follia, perché possa finalmente credere in me stesso! Datemi deliri e spasimi, luci e tenebre improvvise, terrorizzatemi con gelo ed arsu­ra, quali nessun mortale ha ancora mai provato, con fra­stuoni e girovaganti fantasmi, lasciatemi urlare e guaire e strisciare come una bestia: purché possa trovar la fede in me stesso! Il dubbio mi divora, io ho assassinato la legge, la legge mi tormenta come un cadavere tormenta un uomo vivo; se io non sono più che la legge, sono il più reietto di tutti gli uomini. Lo spirito nuovo che è in tue, donde viene se non viene da voi? Dimostratemi che sono vostro; la follia soltanto me lo dimostra». E anche troppo spesso questo ardore raggiungeva assai bene il suo scopo: in quel tempo in cui il cristianesimo dimostrava assai larga­mente di essere fecondo di santi e di anacoreti, credendo con ciò di dimostrare se stesso, esistevano in Gerusalemme grandi manicomi per santi infortunati, per quelli che ci ave­vano rimesso il loro ultimo grano di sale.