Dopo Kant la filosofia prende una piega decisamente fuorviante. Benché confutato già in anticipo da Kant, nasce l’idealismo, con la sofistica deteriore di Fichte, Schelling e Hegel. Se si eccettua Schopenhauer, il discepolo più fedele di Kant, il più “veritiero” dei filosofi moderni, la filosofia successiva si presenta assurda e delirante.
In parte le colpe sono da attribuire a Kant stesso, il quale, nella Critica della ragione pratica, aveva postulato la possibilità di una “autonomia della ragione” per sostenere la necessità dell’imperativo categorico.
E difatti Fichte parte dall’idea di libertà.
Ora, è proprio questo sentiero che gli idealisti hanno battuto: valicando quei confini che Kant aveva imposto all’intelletto, utilizzano la ragione, in grado secondo loro di accedere all’incondizionato.
Il primo passo è l’eliminazione del mondo come fenomeno di una cosa in sé. La cosa in sé, in quanto in conoscibile, è impensabile, secondo gli idealisti. La conoscenza è ridotta a rappresentazione, giustamente, anche secondo Schopenhauer il mondo è rappresentazione. Tuttavia la rappresentazione non è riconosciuta come una relazione tra soggetto ed oggetto, bensì come un prodotto del soggetto conoscente, in quanto essa è per il soggetto ed è nel soggetto. Dunque se la rappresentazione è un prodotto della coscienza, tutto è coscienza (ragione, spirito).
La cosa assurda è che gli idealisti come Fichte e Schelling, non si preoccupano dell’origine fenomenica (cioè materiale) del dato sensibile, attribuendolo a una immaginazione inconscia.
In pratica, seguendo le indicazioni di Maimon, l’oggetto (fenomeno) non è l’antecedente bensì il conseguente del processo conoscitivo. Vale a dire: l’oggetto è prodotto dal principio della determinabilità, mentre prima nella coscienza è un indeterminato.
La realtà e l’origine del dato non interessa agli idealisti, perché secondo loro se si ammette il fenomeno come origine del contenuto della conoscenza bisogna ammettere una realtà indipendente dal soggetto, quindi la cosa in sé.
E si arriva a dire con Hegel che il reale è razionale e viceversa: il che significa che è reale tutto ciò che io penso come tale. Per Hegel non c’è una realtà da interpretare o ordinare attraverso le categorie (gli schemi formali dell’intelletto); la realtà si costituisce nel momento in cui viene pensata – o per meglio dire: essa è ciò che egli ha razionalizzato e riconosciuto (arbitrariamente) come oggettivazione dello Spirito.
Le conseguenze di questa arbitraria concezione del reale sono nichilistiche (vedi i commenti di Colli).
In Fichte, per esempio, la conoscenza è subordinata alla pratica, secondo cui i progetti razionali dell’uomo devono plasmare la realtà (lo spirito deve plasmare la materia). La conoscenza non ha un fine in sé; la pura contemplazione del mondo non è compito dell’idealista, che invece vuole agire in esso per affermare la sua volontà. Ma è chiaro che la realtà sulla quale si va ad agire è quella stessa che il pensiero si è costruito (da qui la sua presunta coerenza).
lunedì 11 gennaio 2010
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