- la comprensione del dionisiaco
- la comprensione del socratismo
- La comprensione del socratismo.
appunti e discussioni sulla filosofia di Schopenhauer e Nietzsche
Genealogia della morale (1887)
Prefazione
Nietzsche si chiede: in quali condizioni l’uomo è andato inventando i giudizi di valore, buono e cattivo? Quale valore hanno in se stessi? Hanno intralciato o promosso il felice sviluppo umano?
Il valore della morale, il valore del “non egoistico”, dell’istinto della compassione, di autonegazione e di sacrificio, che Schopenhauer aveva rivestito d’oro, divinizzato e trasposto nella trascendenza - diventando valori in sé -, contro questi istinti occorre sospetto e scetticismo. In essi si scorge un pericolo grande per l’umanità, si scorge la volontà che si rivolta contro la vita. Nietzsche vede nella morale della compassione il sintomo più inquietante della nostra cultura europea… un tortuoso cammino verso un nuovo buddhismo, verso il nulla, verso il nichilismo. Questa sopravvalutazione della compassione è qualcosa di nuovo; sulla mancanza di valore di essa i filosofi (Platone, Spinosa, La Rochefoucald e Kant) si erano trovati d’accordo.
Nietzsche è un avversario dello scandaloso infrollimento moderno dei sentimenti. Nasce una nuova esigenza: abbiamo bisogno di una critica dei valori morali; bisogna porre la questione sul valore di questi valori.
Prima dissertazione "Buono e malvagio" "Buono e cattivo"
Il giudizio di “buono” non procede da coloro ai quali viene data prova di bontà. Sono invece stati gli stessi “buoni”, vale a dire i nobili, potenti, gli uomini di condizione superiore e di elevato sentire ad aver avvertito e determinato se stessi e le loro azioni come buoni.
Il buono non si collega affatto ad azioni non egoistiche e il punto di vista dell’utilità gli è estraneo.
Il pathos della distanza di una superiore schiatta egemonica in rapporto a una schiatta inferiore (ignobile, volgare, plebea) è all’origine dell’opposizione tra buono e cattivo.
5. I nobili si sono sentiti uomini di rango superiore, si sono attribuiti i nomi di eroi, potenti, condottieri.
6. Alla regola che l’ idea di preminenza politica si risolve sempre in un’ idea di preminenza spirituale non fa eccezione il fatto che la casta suprema sia al tempo stesso la casta sacerdotale. Essa per connotarsi sceglie un predicato che ricorda la sua funzione: compaiono i termini puro e impuro [1]. Ma in queste aristocrazie sacerdotali esiste sin da principio qualcosa di non sano, che ha come conseguenza una labilità viscerale, morbosa, una nevrastenia. Qualcosa che è stato molto più pericoloso della malattia che doveva curare. E l‘umanità è ancora ammorbata dalle conseguenze di queste terapeutiche ingenuità pretesche (es.: astensione dalla carne, digiuno, continenza sessuale, fuga nel deserto [2]. In più: la metafisica di preti, nemica dei sensi, atta a impoltronire e a scaltrire, e la conclusiva universale sazietà con la sua radicale terapia, il nulla (= Dio/Nirvana), l’aspirazione a un’unione mistica con Dio
Presso i sacerdoti tutto diventa più pericoloso, anche la superbia, la vendetta, la sagacia, la dissolutezza, l’amore, la sete di dominio, la virtù, la malattia. Tuttavia, questa forma di esistenza pericolosa ha reso l’uomo in generale un animale interessante. Soltanto qui l’anima umana ha acquistato profondità ed è divenuta malvagia.
Perché i sacerdoti sono i nemici più malvagi? A causa della loro impotenza che l’odio cresce in loro fino ad assumere proporzioni mostruose e sinistre [3]. Senza lo spirito degli impotenti, la storia umana sarebbe una cosa veramente stupida.
Come esempio di ciò (di ciò che è stato fatto contro i nobili, i potenti, i signori), ciò che hanno fato gli Ebrei, quel popolo sacerdotale che ha saputo infine prendersi soddisfazione dei propri nemici e dominatori unicamente attraverso una radicale tra svalutazione dei loro valori, dunque attraverso un atto improntato alla più spirituale vendetta.
Sono stati gli Ebrei (portando avanti l’odio dell’ impotenza) ad aver osato il rovesciamento dell’aristocratica equazione (buono=potente=bello=felice=caro agli dèi) in quest’altra: soltanto i miserabili sono buoni.
Solo i poveri, gli impotenti, gli umili, i sofferenti, gli indigenti gli infermi, i deformi, sono ance gli unici devoti, uomini pii, per i quali soli esiste una beatitudine; mentre i nobili e potenti sono malvagi, crudeli e lascivi, empi, ecc.
Il cristianesimo ha raccolto questa eredità.
Con gli Ebrei ha inizio la rivolta degli schiavi nella morale, rivolta che è stata vittoriosa.
8. L’odio giudaico, l’odio più profondo, trasvalutatore di valori, germogliò un amore nuovo, profondo e sublime – non come antitesi all’odio, ma come suo coronamento.
Gesù di Nazareth, redentore, che porta la beatitudine e la vittoria ai poveri, apparente oppositore e dissolvitore di Israele rientra nella grande politica della vendetta, lungimirante, sotterranea, calcolata: il fatto che Israele stesso ha dovuto negare e mettere in croce dinanzi a tutto il mondo (come un nemico mortale) il vero strumento della sua vendetta affinché “tutto il mondo” (tutti i nemici di Israele) potesse senza esitazione abboccare a questa esca [4]. Sub hoc signo Israele, ha trionfato la morale del gregge.
10. Nella morale, la rivolta degli schiavi ha inizio da quando il ressentiment diventa esso stesso creatore e genera valori. Il ressentiment di quei a cui l’azione è negata e si consolano soltanto attraverso una vendetta immaginaria.
Mentre ogni morale aristocratica germoglia di un trionfante sì, pronunciato a se stessi; la morale degli schiavi dice fin dal principio un no a un “di fuori”, a un altro; e questo no è la sua azione creatrice. Questo necessario dirigersi all’esterno anziché a ritroso verso se stessi, è caratteristico della morale degli schiavi, che ha sempre bisogno e in primo luogo di un mondo esteriore, ha bisogno di stimoli esterni per poter in generale agire.
La morale aristocratica invece agisce e cresce spontaneamente. I “bennati” si sentivano appunto come i “felici”, non avevano bisogno di costruire artificialmente la loro felicità unicamente rivolgendo lo sguardo ai loro nemici.
Notevole contrasto con la felicità degli impotenti, degli oppressi, degli esulcerati da sentimenti velenosi e astiosi, nei quali essa appare essenzialmente come narcosi, stordimento, quiete, pace…
L’uomo del ressentiment è più accorto dell’uomo nobile, questo manca di accortezza, si getta allo sbaraglio sia contro il pericolo, sia contro il nemico; appartiene alle anime nobili quella stravagante repentinità di collera, amore, venerazione, gratitudine e vendetta; e lo sesso ressentiment dell’uomo nobile, quando si manifesta, si esaurisce in una subitanea reazione, che non intossica.
Non poter prendere a lungo sul serio i propri nemici, le proprie sciagure, i propri misfatti, è il contrassegno delle nature vigorose, complete… che sanno dimenticare e risanarsi. I suoi nemici sono quelli in cui ci sia nulla da disprezzare e moltissimo da onorare.
Il nemico dell’uomo del ressentiment è concepito come il “malvagio”, a partire dal quale si fabbrica nella sua immaginazione come sua antitesi un “buono”: se stesso.
11. L’uomo nobile concepisce in anticipo e spontaneamente l’idea fondamentale di “buono” (prendendo le mosse da se stesso e solo su questa base si foggia una rappresentazione del “cattivo”). Il “cattivo” per l’aristocratico è una creazione posteriore, un accessorio, un colore complementare. Il “malvagio” della morale degli schiavi è un vero e proprio atto di un odio insanabile, originario.
Al fondo di tutte queste razze aristocratiche occorre saper discernere la belva feroce, la magnifica divagante bestia bionda, avida di preda e di vittoria [aristocrazia romana, araba, germanica, giapponese, eroi omerici, tutti uguali in questo bisogno].Questa audacia di nobili razze, folle, assurda, improvvisa… la loro indifferenza e il loro disprezzo per la sicurezza, il corpo, la vita, gli agi, la loro terribile serenità e la profondità del godimento in ogni distruzione, in ogni voluttà di vittoria e di crudeltà.
Oggi viene ritenuto come “verità” che il senso di ogni civiltà sia quello di disciplinare con l’educazione la bestia da preda “uomo”, così da farne un animale mansuefatto e civilizzato, un animale domestico: questi istinti di reazione di ressentiment (per mezzo dei quali le razze nobili sono state umiliate e sopraffatte) bisogna considerarli come i peculiari strumenti della civiltà.
Questi depositari degli istinti del ressentiment, costoro rappresentano la retrocessione dell’umanità. Questi strumenti di civiltà sono argomento contrario alla “civiltà” in generale [5].
Nietzsche, preferirebbe cento volte temere e al tempo stesso ammirare, invece che non temere, senza potersi liberare della vista disgustosa dei malriusciti, dei meschini. Non c’è più nulla da temere nell’uomo; l’uomo mediocre ha imparato a sentire se stesso come meta e culmine, come senso della storia.
12. E’ assolutamente intollerabile l’ immeschinirsi e il livellarsi dell’uomo europeo: è il nostro grande pericolo. Nietzsche vorrebbe mantenere la fede nell’uomo, volgere lo sguardo a qualcosa di compiutamente riuscito, di beato, di possente, trionfante; a un uomo che giustifichi l’uomo. Oggi tutto continua a diventare più prudente, più buono, più mediocre, indifferente, cristiano…l’uomo si fa sempre “migliore”. Col timore per l’uomo abbiamo perduto l’amore verso di lui, la venerazione dinanzi a lui, la speranza in lui. La vista dell’uomo rende ormai stanchi: che cosa altro è il nichilismo, se non questo? Noi siamo stanchi dell’uomo.
13. Pretendere dalla forza che non si estrinsechi come forza, che non sia un voler sopraffare, un voler abbattere, un voler signoreggiare, una sete di nemici e di opposizioni e di trionfi… è una pretesa assurda.
Un quantum di forza è un quantum d’ istinti (non bisogna fraintendere pensando che questo agire sia condizionato da un agente, da un “soggetto”). Non esiste un “essere” al di sotto del fare, dell’agire e del divenire; “colui che fa” è fittiziamente aggiunto al fare, il fare è tutto. Imputare l’azione al soggetto è una credenza sfruttata a proprio vantaggio dai deboli. I quali dicono: dobbiamo essere diversi dai malvagi; è buono chi non usa violenza, non reca danno, non aggredisce… come noi che umili e giusti pretendiamo poche cose dalla vita.
Questo travestimento della virtù rinunciataria, silenziosa questa mendacità di fronet a se stessi è propria dell’ impotenza: come se la debolezza stessa del debole fosse un effetto voluto, scelto, un’ azione, un merito.
14. Come si fabbricano gli ideali sulla terra?
Danno a intendere che sono migliori dei potenti, dei signori della terra, di cui devono leccare gli sputi, non per paura, ma perché Dio ha comandato di onorare l’ autorità. Queste bestie del sottosuolo sature di vendetta e di odio, dicono: noi buoni, siamo i giusti; a quel che pretendono non danno il nome di rivalsa bensì “trionfo della giustizia”.
15. Intanto vivono nella fede, nell’amore, nella speranza: ma di che cosa? Questi deboli, anch’essi vogliono essere i forti, a un certo momento deve venire anche il loro “regno”. Hanno bisogno di vivere otre la morte per potersi rifare di questa vita terrestre.
16. I due valori antitetici, buono e cattivo, hanno sostenuto sulla terra una terribile lotta durata millenni, che continua. Simbolo di questa lotta: Roma contro Giudea. Nessun avvenimento più grande di questa lotta, fino ad oggi. Roma sentì nell’ebreo qualcosa come la contronatura stessa, il suo monstrum antipodico; in Roma si considerava l’ebreo “un provato colpevole di odio contro l’intero genere umano”. I Romani erano invece forti e nobili, come non lo sono mai esistiti sulla terra di più forti e di più nobili. Gli Ebrei viceversa erano quel popolo sacerdotale, del ressentiment par excellence. Nel Rinascimento c’è i risveglio dell’ideale classico, ma tornò a trionfare Giudea con il movimento plebeo della Riforma … e anche con la Rivoluzione francese [il primato del maggior numero]. Come ultima indicazione dell’altra via appare Napoleone: ideale aristocratico in sé; sintesi di disumano e di superuomo.
17.Il filosofo deve risolvere il problema del valore, deve determinare la gerarchia dei valori.
[1] Puro, fin dall’inizio non significava altro che uno che si lava e che si proibisce certi cibi e non si unisce a certe donne.
[4] Forza attrattiva e inebriante, stordente, corruttrice, del simbolo della “santa croce”: paradosso spaventoso di un “Dio in croce”.
[5] [E’ paradossale che la ripugnanza di Nietzsche per l’uomo derivi dal fatto che è dell’uomo che egli soffre. Nietzsche pensa in generale, e ha in mente l’umanità secondo lui avviata verso il declino, quanto alla concreta sofferenza non mostra nessun interesse. NdC].
Nietzsche, Aurora (1881)
14. Significato della follia nella storia della moralità. Se nonostante quella spaventosa oppressione dell’«eticità del costume», sotto la quale vissero le comunità umane molti secoli prima della nostra èra e ancora in essa in tutto e per tutto fino ai nostri giorni (noi stessi abitiamo nel piccolo mondo dell’eccezione e per così dire nella zona cattiva); se, dico, nonostante tutto questo irruppero sempre, ancora una volta, pensieri, valutazioni, istinti nuovi ed irregolari, ciò avvenne con un accompagnamento che mette i brividi: quasi ovunque è la follia che ha aperto la strada al nuovo pensiero, che ha infranto il potere di una venerabile consuetudine e di una superstizione. Comprendete voi perché dovette essere la follia? Qualcosa nella voce e nei gesti, così raccapricciante e imprevedibile come gli estri demoniaci del tempo atmosferico e del mare, e perciò degno di un analogo timore e rispetto? Qualcosa che portava il segno di un'assoluta irresponsabilità tanto evidente quanto gli spasimi e la schiuma degli epilettici, qualcosa che parve in tal modo caratterizzare il folle come maschera e stetoscopio di una divinità? Qualcosa che dava al portatore di un nuovo pensiero persino venerazione e tremore di sé senza più rimorsi di coscienza, e lo spingeva a divenire il profeta e il martire di quello? Mentre oggi risulta ancora una volta immédiatamente constatabile che invece di un granello di sale è dato al genio un granello drogato di follia, a tutti gli uomini di una volta era molto più vicino il pensiero che, ovunque esista follia, esiste anche un granello di genio e di saggezza - qualcosa di «divino», come ci si andava bisbigliando all'orecchio. O piuttosto, come si andava esprimendo con discreta energia. «Mercé la follia i più grandi beni sono venuti alla Grecia», diceva Platone con tutta l'antica umanità. Facciamo ancora un passo avanti: a tutti quegli uomini superiori che erano irresistibilmente attratti ad infrangere il giogo di una qualche eticità e a dare nuove leggi non restò nient’altro, se essi non erano realmente folli, che diventare pazzi o farsi passare per tali; e ciò vale in verità per i novatori in tutti i campi, non soltanto per chi innovava nelle istituzioni sacerdotali e politiçhe: perfino l’innovatore del metro poetico dovette accreditarsi per mezzo della follia. (Da ciò, fino ad epoche molto più miti restò nei poeti una certa convenzione della follia, alla quale per esempio si richiamava Solone allorché pungolava gli Ateniesi alla riconquista di Salamina.) «Come si può fare i pazzi, se non lo si è e non si osa sembrarlo?». Di questo terribile ordine di idee erano preda quasi tutti gli uomini importanti della civiltà più antica; una occulta dottrina di stratagemmi e norme dietetiche s'impiantò ulteriormente al riguardo, accanto al sentimento dell'innocenza, anzi della santità di una tale meditazione e di tali propositi. Le ricette, per diventare, presso gli Indiani uno stregone, presso i cristiani del Medioevo un santo, presso i Groenlandesi un Angekok, presso i Brasiliani un Paje, sono essenzialmente le stesse: digiuni insensati, prolungata continenza sessuale, andar nel deserto, o salire su un monte oppure su una colonna, oppure «stabilirsi in un annoso pascolo che guardi su un lago» e non pensare assolutamente a nulla se non a ciò che può portare con sé una convulsione e un disordine spirituale. Chi osa gettare uno sguardo nello squallore delle più amare e più inutili tribolazioni interiori, nelle quali probabilmente sono andati languendo gli uomini più fecondi di tutti i tempi? Chi osa ascoltare quei sospiri degli uomini solitari e sconvolti? «Ahimè, datemi dunque la follia, voi celesti! Follia, perché possa finalmente credere in me stesso! Datemi deliri e spasimi, luci e tenebre improvvise, terrorizzatemi con gelo ed arsura, quali nessun mortale ha ancora mai provato, con frastuoni e girovaganti fantasmi, lasciatemi urlare e guaire e strisciare come una bestia: purché possa trovar la fede in me stesso! Il dubbio mi divora, io ho assassinato la legge, la legge mi tormenta come un cadavere tormenta un uomo vivo; se io non sono più che la legge, sono il più reietto di tutti gli uomini. Lo spirito nuovo che è in tue, donde viene se non viene da voi? Dimostratemi che sono vostro; la follia soltanto me lo dimostra». E anche troppo spesso questo ardore raggiungeva assai bene il suo scopo: in quel tempo in cui il cristianesimo dimostrava assai largamente di essere fecondo di santi e di anacoreti, credendo con ciò di dimostrare se stesso, esistevano in Gerusalemme grandi manicomi per santi infortunati, per quelli che ci avevano rimesso il loro ultimo grano di sale.