giovedì 30 luglio 2015

Nietzsche e il senso del tragico

Nell'ambito di queste lezioni sul senso del tragico non poteva mancare la riflessione di Nietzsche. 
Non solo perché il termine compare in due sue importanti opere giovanili, e cioè La nascita della tragedia del 1871 e La filosofia nell'epoca tragica dei Greci del 1873, ma soprattutto perché la sua intera filosofia è incentrata sul senso del tragico.
Egli stesso dirà (Ecce homo), ricordando la La nascita della tragedia: “Ho il diritto di considerarmi il primo filosofo tragico, cioè l'estrema antitesi e l'antipodo di un filosofo pessimista. Prima di me non esisteva questa trasposizone dell'elemento dionisiaco in pathos filosofico: mancava la saggezza tragica” (Eh nt 3)

Vedremo questo analizzando La nascita della tragedia.
Ma come premessa potremmo dire che tragica è stata anche tutta la vicenda personale di questo grande e controverso filosofo, e non voglio rifermi né agli ultimi undici anni della sua vita, i cosiddetti anni della follia (vera o presunta che fosse) e nemmeno alle incomprensioni di cui fu vittima spesso durante la sua vita, bensì alla vicenda delle maldestre interpretazioni del suo pensiero.
Come è noto ormai a molti, storicamente non esiste un pensatore più mal trattato di Nietzsche. La sua personalità e il suo pensiero hanno dovuto sopportare la curiosità degli animi più volgari e soddisfare il gusto degli interpreti più corrotti. Spesso le sue parole sono state utilizzate per sostenere gli scopi più esecrabili. Gli è toccato di essere bandito per colpa delle allucinazioni di animi patologicamente deviati.
Proprio considerando le cattive e perverse interpretazioni di Nietzsche, Giorgio Colli (curatore insieme a Mazzino Montinari delle sue Opere) sente il dovere di avvertire coloro che rimangono affascinanti dalle sue parole.
Leggiamo l'aforisma Citazioni proibite : “Un falsario è chi interpreta Nietzsche utilizzando le sue citazioni, perché gli farà dire tutto quello che vorrà lui, aggeggiando a suo piacimento parole e frasi auetentiche. Nella miniera di questo pensatore è contenuto ogni metallo: Nietzsche ha detto tutto e il contrario di tutto. E in generale è disonesto servirsi delle citazioni di Nietzsche parlando di lui, poiché così si dà valore alle proprie parole con la suggestione che suscita l'introduzione delle sue” (Dopo Nietzsche 196).
Per cogliere qualcosa di questo complesso e esaltante enigma di nome Nietzsche, bisogna stabilire un rapporto profondo che consenta di cogliere in lui - al di là delle maschere, delle commedie e delle polemiche del momento, che Nietzsche assume spesso - un sottofondo immutabile, un atteggiamento fondamentale che è quello della grande filosofia: il distacco dagli interessi sociali e politici e il tentativo di cogliere e affermare i valori essenziali della vita.
Ed è esattamente il legame con i Greci quello che ci consente di cogliere il Nietzsche più autentico.

La tragedia, dunque, secondo Nietzsche la più profonda manifestazione del genio ellenico.
 La nostra analisi comprende le due innovazioni che Nietzsche stesso a distanza di anni (cfr. Ecce homo) considera come i risultati più importanti della sua opera: 
  • la comprensione del dionisiaco
  • la comprensione del socratismo

Con quest'opera Nietzsche ci offre un'estetica fondata sulla metafisica schopenhaueriana. Come per Schopenhauer anche per Nietzsche la vita è dolore. Del resto tutti i grandi del passato si sono espressi in questo senso (Tucidide, Shakespeare, Leopardi, Dostoevskij). Il dolore è visto sia nel mondo dell'apparenza sia nel mondo della volontà, anzi per meglio dire: il dolore che si presenta nell'apparenza non è che la manifestazione di una sofferenza, di una mancanza, di una insufficienza che sta alla radice delle cose.
Nietzsche come Schopenhauer parla di “sventura nell’essenza delle cose” e di “contraddizione nel cuore del mondo”.
Ma qui l'approccio al problema non è né teoretico né etico, bensì estetico; quindi l'arte, poiché secondo lui “solo come fenomeno estetico l'esistenza e il mondo appaiono giustificati”.
Guardando e imparando dai Greci, più che alla filosofia – Nietzsche secondo Colli non avrebbe compreso completamente l'eccellenza speculativa dei Sapienti – il favore di Nietzsche va alla tragedia.

La nascita dell’arte è legata alla duplicità dell’apollineo e del dionisiaco. Apollo e Dioniso sono due divinità artistiche. Nel mondo greco sussiste un’enorme contrasto (per origine e fine) fra l’arte dello scultore, apollinea, e l’arte non figurativa della musica, dionisiaca.
Per meglio comprenderli Nietzsche ci invita a immaginare questi due impulsi artistici come due fenomeni fisiologici: il sogno e l’ebbrezza.
Nel sogno apparvero le magnifiche figure degli dèi, allo scultore; e anche il poeta interrogato sui segreti della creazione poetica avrebbe ugualmente ricordato il sogno. La bella parvenza dei mondi del sogno è il presupposto di ogni arte figurativa, tuttavia nonostante la vita suprema di questa realtà sognata traspare in lui il sentimento della sua illusione. L’artista gioca col sogno, sa della sua illusione, ma sperimenta in esso tutta la ‘divina commedia’ della vita. Questa giocosa necessità del sogno è espressa da Apollo, dio di tutte le capacità figurative.
La superiore verità, la perfezione di questi stati, contrastano con la realtà della vita quotidiana. Nell’immagine di Apollo troviamo: moderata limitazione, libertà dalle emozioni più violente, un occhio solare. Apollo è l’incrollabile fiducia nel principium individuationis; il placido acquietarsi di colui che da esso è dominato. Apollo insomma è inteso come espressione sublime, magnifica immagine del principium individuationis.

Alla base dell’ebbrezza invece c’è l’orrore che afferra l’uomo quando improvvisamente perde fiducia nelle forme di conoscenza dell’apparenza, in quanto il principio di ragione sembra soffrire un’eccezione in qualcuna delle sue configurazioni. A cui si aggiunge un estatico rapimento che sale dall’intima profondità della natura.
Con la violazione del principium individuationis, abbiamo l’essenza del dionisiaco. Nella esaltazione degli impulsi dionisiaci l’elemento soggettivo svanisce in un completo oblio di sé. Sotto l’incantesimo del dionisiaco si infrangono le ostili delimitazioni che la necessità, l’arbitrio e la moda hanno stabilito. Si restringe il legame tra uomo e uomo e si giunge a una riconciliazione con la natura. Strappato il velo di Maia, l’uomo si ritrova davanti alla misteriosa unità originaria. L’uomo non è più artista (come nel sogno), è divenuto opera d’arte. Si rivela qui, nell’ebbrezza, il potere artistico dell’intera natura.

Cosicché mentre
Apollo è presentato come il genio trasfiguratore del principium individuationis, grazie a cui soltanto si può conseguire davvero la liberazione nell’illusione; per contro nel mistico grido di giubilo di Dioniso la catena dell’individuazione viene spezzata e si apre la via verso la madre dell’essere, verso l’essenza intima delle cose.
E mentre l'artista apollineo supera la sofferenza dell’individuo con una luminosa glorificazione dell’eternità dell’apparenza, con la bellezza che vince la sofferenza che inerisce alla vita (qui il dolore viene in un certo senso fatto scomparire dai tratti della natura).
Il musicista dionisiaco invece è, senza alcuna immagine, egli stesso totalmente e unicamente il dolore originario stesso e l’eco originario di esso.
Ed è proprio la musica in quanto arte dionisiaca a generare il mito, e precisamente il mito tragico: il mito che parla attraverso immagini apollinee della conoscenza dionisiaca. La musica, qui intesa come interiorità pura, seguendo la lezione schopenhaueriana, cerca di pervenire a una simbolizzazione e trova l’espressione simbolica per la sua vera e propria sapienza dionisiaca nella tragedia e in genere nel concetto del tragico.
Pertanto, il dramma è una rappresentazione apollinea sensibile di conoscenze e moti dionisiaci. [forma apollinea e contenuto dionisiaco]
Il mito tragico è da intendere come una simbolizzazione della sapienza dionisiaca attraverso mezzi artistici apollinei.
Il contenuto del mito tragico è un accadimento epico con la glorificazione dell'eroe in lotta.

Anche la bellezza di cui è simbolo Apollo poggia su un fondamento, mascherato, di sofferenza e conoscenza. Il greco conobbe e sentì i terrori e le atrocità dell’esistenza; per poter vivere dovette per profondissima necessità creare gli dèi olimpici. Un popolo che aveva un talento così unico per il soffrire come avrebbe potuto sopportare l’esistenza se questa non gli fosse stata mostrata nei suoi dèi circonfusa di una gloria superiore. Gli dèi giustificano la vita vivendola essi stessi. Lo stesso impulso che suscita l’arte come completamento dell’esistenza, che induce a continuare a vivere, fece nascere anche il mondo olimpico.
L'artista tragico condivide con la sfera artistica apollinea il piacere totale per l'illusione e la contemplazione, e in pari tempo nega questo piacere e trova un appagamento ancora maggiore nell'annullamento del mondo visibile dell'apparenza.
Dunque per riassumere:
Il dionisiaco è l’eroico impulso verso l’universale, è il tentativo di oltrepassare la barriera dell’individuazione e di voler essere lui stesso l’unica essenza del mondo. Nella sua forma più antica la tragedia aveva per oggetto solo i dolori di Dioniso. L’unico eroe presente sulla scena, Prometeo o Edipo sono soltanto maschere di quell’eroe originario.
L'eroe patisce in sé la contraddizione originaria nascosta nelle cose, vale a dire commette un delitto e soffre; l'eroe in lotta preso nella rete della volontà individuale sperimenta i dolori dell'individuazione.
E' questa dunque la visione del mondo della tragedia (la sua dottrina mistica): l'individuazione come causa prima del male.
Mentre l'arte è intesa come lieta speranza che il dominio dell'individuazione possa essere spezzato.
Dunque la conoscenza tragica per poter essere sopportata ha bisogno dell'arte come protezione e rimedio.
Anche per Schopenhauer con la tragedia abbiamo la rappresentazione della vita nel suo aspetto terribile. In essa si esprime il dolore senza nome – l’affanno dell’umanità – il trionfo della perfidia – lo scherno del caso - il fatale precipizio dei giusti – ecc. Si ha con essa un significante segno intorno alla natura del mondo e dell’essere. La tragedia esprime il contrasto della volontà con se stessa, che qui, nel grado supremo della sua oggettività, dispiegata in tutta la sua pienezza, tremendamente balza alla luce. La volontà (la cosa in sé) nel dolore dell’umanità si fa visibile.

Ma in Nietzsche non c'è una lettura pessimistica della tragedia.
La tragedia prova che i Greci non erano pessimisti. Proprio per mezzo di essa superarono il pessimismo. In essa c'è la consolazione metafisica per cui in fondo alle cose la vita è, a dispetto di ogni mutare delle apparenze, indistruttibilmente potente e gioiosa.
La gioia metafisica per ciò che è tragico è una traduzione della sapienza dionisiaca istintiva e inconscia nel linguaggio dell’immagine: l’eroe, la più alta apparenza della volontà, viene con nostra gioia negato, perché è comunque solo apparenza, e la vita eterna della volontà non viene toccata dalla sua distruzione.
Anche se, come dice Colli, Nietzsche è un filosofo nella misura in cui si rivela l'unico schopenhaueriano autentico, è il caso di sottolineare ora la differenza tra la metafisica di Nietzsche e quella di Schopenhauer, che già emerge in questo scritto giovanile, ma che successivamente sarà più marcata.
Lo facciamo mettendo a confronto il concetto di volontà di vivere di Schopenhauer con il concetto di volontà di potenza di Nietzsche
[L’espressione Wille zur Macht compare per la prima volta nell’inverno 1880/81, sviluppata negli anni 1884/85, elaborata in Al di là del bene e del male (JGB) e in Genealogia della morale (GM)]
Semplificando un po’, il concetto di volontà di potenza si riconduce a quello schopenhaueriano di volontà di vivere, ma mentre Schopenhauer ha dato del suo concetto una definizione chiara, altrettanto non si può dire di Nietzsche. Come quello schopenhaueriano il concetto di Nietzsche è la concessione di un valore noumenico al principium individuationis; in entrambi i casi si tratta di una sostanza irrazionale che è in noi e di cui diventiamo partecipi per un’apprensione immediata. Nonostante l’intenzione contraria è un atteggiamento metafisico.
La teoria prende le mosse dal linguaggio del suo periodo cosiddetto ‘positivistico’, dalle formulazioni meccanicistiche e dal concetto di forza. Secondo Nietzsche questo concetto ha bisogno di un completamento: gli si deve assegnare un mondo interno (appunto una volontà di potenza), cioè un insaziabile desiderio di manifestare la propria potenza. Dunque un sostrato non fisico, un desiderio, un conatus. (Tuttavia a differenza di Spinoza, la volontà più che a conservarsi, tende ad espandersi).
La volontà di potenza è l’ultimo fatto [termine positivistico] a cui perveniamo scendendo in profondità (Fr. post. 1884/85), essa è la condizione che rende possibile la vita in generale. E’ la condizione della coscienza, dei giudizi, delle valutazioni.
Il risultato notevole è questo: Nietzsche dice che bisogna considerare tutti i fenomeni (la morale, la storia, ogni accadere cosmico…) come meri sintomi di un accadere interno.
La vita non tende alla felicità, ma alla potenza. Ma a tendere non sono gli individui – che non hanno vera realtà – bensì le loro sfere di potenza, inafferrabili. L’individuazione è un inganno di cui si avvolge la volontà di potenza.
La differenza tra Nietzsche e Schopenhauer rispetto a questa sostanza è che Schopenhauer vuole negarla, la rifiuta, mentre Nietzsche vuole affermarla, l’accetta. Non nel principio sta l’originalità di Nietzsche, ma nella reazione al principio (atteggiamento che risale agli anni giovanili della Nascita della tragedia). Questo tema trova un’espressione simbolica in Dioniso, che non è più un simbolo estetico, ma ora emerge sul piano teoretico ed etico.
In JGB Dioniso diventa colui che sa che l’essenza del mondo è volontà di potenza e inoltre accetta questo e vuole che sia così. In JGB e in GM è il concetto di dolore che costituisce una pietra di paragone per la filosofia della volontà di potenza. Nietzsche non parla della volontà di potenza in sé; ma dal punto di vista del dolore, del giudizio sul dolore.
La volontà di potenza porta con sé il dolore: questa è la conoscenza terribile che Nietzsche chiama dionisiaca. Qualsiasi morale, qualsiasi concezione del mondo voglia rifiutare il dolore (come fanno il buddismo e Schopenhauer) è qualcosa che rifiuta la volontà di potenza, la vita stessa.
La debolezza del raziocinio moderno sta in questo rifiuto del dolore (cfr. JGB, 202; 225). La sostanza del mondo non deve essere velata, nascosta ipocritamente. E se nell’abisso della vita c’è qualcosa di orrendo, il pathos della verità ci impone di dichiararlo.
Peggiori non sono coloro che lo indicano e cercano di evitarlo, bensì coloro che vogliono far credere che il dolore non è nel profondo e che si può togliere di mezzo (JGB, 44). Chi rifiuta il dolore percorre le strade della decadenza e del nichilismo.

Il concetto di dolore dalla psicologia posteriore sarà giudicato in modo opposto a quello di Nietzsche, il quale quasi prevede la cosa quando dice: «per esempio, quando si vuole dimostrare l’erroneità della sofferenza, nell’ingenuo presupposto che la sofferenza debba sparire, non appena l’errore è in essa conosciuto…».

Questo confronto tra i due filosofi ci permette di recuperare l'altro risultato importante che Nietzsche riteneva aver espresso nella Nascita della tragedia:
  • La comprensione del socratismo.
La tragedia morì suicida. Nella commedia attica nuova sopravvive la forma degenerata della tragedia. Con Euripide, lo spettatore, l’uomo della vita quotidiana appare sulla scena. I poeti tragici anteriori si erano guardati dal riprodurre la realtà, Euripide si vanta di aver liberato l’arte tragica dalla sua pomposa corpulenza.
La tendenza di Euripide fu di eliminare dalla tragedia l’elemento dionisiaco originario. Sulla scena prendeva a parlare la mediocrità cittadina; lo spettatore vede il suo sosia. Egli rappresentava la vita e la pratica comuni, di cui ognuno era capace di giudicare. Con la commedia assistiamo al trionfo della furbizia, della scaltrezza, della volubilità, dell’arbitrio, ecc.
Con la morte della tragedia il Greco ha perso la fede nella propria immortalità.
Secondo Nietzsche Euripide aveva scorto nella tragedia una enigmatica profondità, l’incommensurabilità, la problematica dei miti: in cui le figure accennano qualcosa di incerto e incerta è la soluzione dei problemi etici.
In lui si esprime il talento critico, in cui l’intelletto è considerato la vera e propria radice di ogni godimento e creazione. Egli si guarda intorno per scoprire chi come lui non capisce la tragedia e vede Socrate. Per bocca di Euripide non parlava Dioniso o Apollo, ma un nuovo demone di recente nascita: Socrate (il quale pare aiutasse Euripide a poetare).

Ecco l'opposto del dionisiaco: la tendenza socratica (con l’aiuto della quale Euripide vinse contro la tragedia). Socrate, l’unico che ammetteva di non sapere, vedeva che gli altri (statisti, oratori, poeti) presumevano di sapere, ma non avevano una idea giusta della loro professione e che la esercitavano per istinto, solo per istinto. Per Socrate solo chi sa è virtuoso.

Ecco l'essenza dunque del socratismo estetico, la cui legge suprema suona: tutto deve essere razionale per essere bello. Euripide è come poeta l’eco delle sue cognizioni coscienti: l’intelletto incluso nel creare artistico.
Socrate, individuo non mistico, in cui mai arse la follia dell’entusiasmo artistico. Doveva scorgere nella tragedia qualcosa di assolutamente irrazionale, che annoverava tra le arti lusingatrici, che non rappresentano l’utile.
Socrate, l’eroe dialettico del dramma platonico (nei dialoghi), come l’eroe euripideo, deve difendere la sua azione con ragioni e controragioni: l’eroe virtuoso deve essere dialettico. C’è un ottimismo nella natura della dialettica, che celebra la propria festa in ogni conclusione. La morte della tragedia sta in queste tre formule socratiche: la virtù è sapere; si pecca solo per ignoranza; il virtuoso è felice.
Questa idea illusoria viene al mondo per la prima volta con Socrate: quella incrollabile fede che il pensiero giunga, seguendo il filo conduttore della causalità, fin nei più profondi abissi dell’essere, e che il pensiero sia in grado non solo di conoscere, ma addirittura di correggere l’essere.
E’ la sublime illusione data dalla Scienza. La scienza opposta alla concezione tragica del mondo. L’influenza di Socrate si è allargata sulla posterità sino a questo momento. Nel mondo odierno assistiamo alla lotta tra la conoscenza insaziabile e ottimistica e il bisogno tragico dell’arte.

Tutto il mondo moderno è preso nella rete della cultura socratica, e trova il suo ideale nell’ uomo teoretico, che lavora al servizio della scienza. La scienza crede nella conoscibilità e attingibilità di tutti gli enigmi del mondo, eleva l’apparenza a unica e suprema realtà e la pone al di sopra dell’intima vera essenza delle cose, rendendo impossibile la conoscenza di quest’ultima.
E ciò che notava Nietzsche ai suoi tempi, cioè che “tutti i nostri mezzi educativi propongono questo ideale”, è per noi ancora purtroppo “tragicamente” vero!
La cultura tragica pone al posto della scienza la sapienza, che non si lascia ingannare dalla scienza e guarda all’immagine totale del mondo, cercando di cogliere, con simpatetico sentimento d’amore, l’eterna sofferenza come sofferenza propria.

Per concludere. Quali risultati possiamo trarre dalla riflessione nietzscheana? Questa opposizione tra istinto e razionalità, tra verità e menzogna.
Da una parte l'affermazione suprema della vita nata dalla sovrabbondanza, dalla pienezza; un dire sì senza riserve al dolore stesso, alla colpa stessa, a tutto ciò che l'esistenza ha di problematico e ignoto.
Dall'altra un istinto degenerato, che si rivolta contro la vita con rancore sotterraneo, in cui per viltà si fugge dalla realtà.

Come dice nel Crepuscolo degli idoli nella psicologia dello stato dionisiaco si esprime il fatto fondamentale dell'istinto ellenico, cioè la sua volontà di vivere. E affinché esista l'eterno piacere del creare, affinché la volontà di vita affermi se stessa eternamente, deve esistere eternamente il dolore. Il dolore è perciò santificato. Il dionisiaco è religiosamente sentito come il più profondo istinto vitale, come straripante senso della vita, all'interno del quale il dolore agisce come uno stimolante.
Questa secondo Nietzsche è la chiave per intendere il sentimento del tragico.



giovedì 31 luglio 2014

Nietzsche e Colli

Anzitutto c'è tra i due un rapporto editoriale:
le Opere di Nietzsche sono state pubblicate in Italia (e nella stessa Germania) secondo il testo critico stabilito da Giorgio Colli e Mazzino Montinari. Quest'ultimo è stato allievo di Colli al Liceo “Machiavelli”di Lucca e poi amico e collaboratore di Colli.
Montinari essendo diventato un germanista (e pure iscritto al partito comunista) ebbe modo di accedere all'Archivio Nietzsche di Weimar (Archivio Goethe-Schiller), che si trovava nella Repubblica Democrarica Tedesca, e attraverso un lungo lavoro, a partire dal 1961, esaminando i quaderni del filosofo, confrontati con le opere pubblicate, stabilisce insieme a Colli il testo critico delle Opere di Nietzsche.
Le traduzioni, oltre a quelle di Colli e Montinari, sono di Sossio Giametta, Ferruccio Masini e altri. Mazzino Montinari svolse in Germania un grande lavoro, tuttavia nel rifare la “preistoria” della loro edizione scrisse che senza Colli l'edizione delle Opere non ci sarebbe stata (Su Nietzsche, Roma 1981, pp. 3-13).
Colli è noto ai più per essere stato il “curatore” delle opere di Nietzsche. Ma chi si trova a fare i conti con N. si accorge presto che Colli non è un semplice curatore delle sue opere, ma un discepolo che è diventato filosofo perché ha saputo imparare e ha voluto imparare dal maestro.
Dopo Nietzsche: “Come si diventa un filosofo. Scegliere per tempo i propri maestri (il fiuto dev'essere innato) – purché siano pochi. Stringerli, spremerli, sviscerarli, tormentarli, sminuzzarli e rimetterli insieme, senza subire la lusinga della polimatia. Minatore fedele alla sua caverna: è la faccia oscura del filosofo. Schopenhauer ha conosciuto questa ricetta: Nietzsche no, ma ha saputo scavare Schopenhauer” (p. 26).
Di questa venerazione Nietzsche diede prova nella inattuale Schopenhauer come educatore. Colli ripete con Nietzsche la stessa esperienza, ma sul maestro non scrive nessun saggio, egli invece lo lascia parlare senza edificare alcuna interpretazione e senza intermediari, cerca di comprenderlo insomma nella sua totalità e non secondo frammenti casuali o suggestivi. Non è il caso, secondo lui, di interpretare le parole di Nietzsche ma di riprodurle secondo l'ordine in cui si sono manifestate.
Dopo Nietzsche (1974) è un libro che parla di Nietzsce ma non è un libro su Nietzsche.

Voi sapete certamente che storicamente non esiste un pensatore più mal trattato di Nietzsche. La sua personalità e il suo pensiero hanno dovuto sopportare la curiosità degli animi più volgari e soddisfare il gusto degli interpreti più corrotti.
Spesso le sue parole sono state utilizzate per sostenere gli scopi più esacrabili. Gli è toccato di essere bandito per le allucinazioni di animi patologicamente deviati.
Leggo un aforisma di Colli dal titolo Citazioni proibite. “Un falsario è chi interpreta Nietzsche utilizzando le sue citazioni, perché gli farà dire tutto quello che vorrà lui, aggeggiando a suo piacimento parole e frasi auetentiche. Nella miniera di questo pensatore è contenuto ogni metallo: Nietzsche ha detto tutto e il contrario di tutto. E in generale è disonesto servirsi delle citazioni di Nietzsche parlando di lui, poiché così di dà valore alle proprie parole con la suggestione che suscita l'introduzione delle sue” (Dopo Nietzsche, p. 196).

Quindi secondo Colli parlare delle sue idee è inutile, perché nessuno può parlare meglio di quanto abbia fatto lui; Nietzsche è come la musica: agisce in profondità, tocca il tessuto immediato della vita, le sue parole arrivano prima all'animo che alla ragione. In molti oggi credono di aver capito N. ma il vero capire è fare qualcosa nella direzione che egli ha indicato. E Colli lo ha fatto (gli studi sulla Sapienza, e il progetto editoriale presso la casa editrice Boringhieri con l'Enciclopedia degli Aurori Classici).

Solo in Colli, ci pare, troviamo rispettata la sua grandezza, poiché solo chi ha imparato veramente può essere mosso da un profondo senso di venerazione e gratitudine. E Colli il suo debito di riconoscenza lo paga con l'impegno profuso nella fedele edizione delle Opere.
Colli propose a se stesso questo complesso e esaltante enigma di nome Nietzsche perché poteva e voleva comprendere. Perché è un filosofo.
Un rapporto profondo gli consente di cogliere in lui - al di là delle maschere, delle commedie e delle polemiche del momento, che Nietzsche assume spesso - un sottofondo immutabile, un atteggiamento fondamentale che è della grande filosofia: il distacco dagli interessi sociali e politici e il tentativo di cogliere e affermare i valori essenziali della vita.
Capire Nietzsche veramente significa scartare la tracotanza con cui egli ha aggredito la realtà circostante.

Imparare da Nietzsche per Colli significa pure trattare il maestro con la stessa severità e giustizia con cui questi ha giudicato gli altri. Per cui non dobbiamo perdonare a N. le sue debolezze, ciò significa aver imparato da lui.
Ben inteso, per Colli Nietzsche è anzitutto più filosofo di ogni altro filosofo moderno, se per filosofia si intende una concezione totale della vita, più intuitiva che logica. Tuttavia Colli sottolinea alcune lacune di Nietzsche proprio come filosofo:
- la mancanzza di disciplina filosofica o l'acerbità teoretica; mancanza di capacità deduttiva, l'incertezza e l'incostanza nelle sue argomentazioni ...
- N. non sa dimostrare ma sa cogliere la verità; con tutti i proclami sulla libertà di spirito, N. non sa dire quando e perché una conoscenza è vera o falsa;
- è ignorante per quanto riguarda la storia della filosofia; a volte per dispetto a Schopenhauer elogia Hegel (assorbe la grande menzogna tedesca connaturata alla lingua: Werden – divenire);
- non distingue da Kant da Hegel;
- per certe cose è affine a Spinoza ma lo conosce attraverso una esposizione manualistica; e anche per i Greci spesso le sue fonti biografiche e dossografiche sono tarde;
- gli unici filosofi che ha letto direttamente sono Platone e Schopenhauer, ma del primo non ha affrontato tereticamente la dottrina delle idee, limitandosi a discutere questioni morali, politiche o estetiche; del secondo ha letto più i Parerga che il Mondo, mentre gli è estraneo il chiaro impianto della Quadruplice;
- storicamente N. rimane immerso nell' irrazionalismo del secolo ma non è stato lui a scatenarlo, anzi lo è meno di tutti, sino a che si rivolge ai Greci e a Schopenhauer, però non affronta il problema della razionalità, non critica la ragione, l'adopera come a arma distruttiva e crede in essa; N. è assertore della ragione fino ad abbassarsi alla volgarità positivista; il suo scetticismo insomma non è estremistico;
- spesso si serve più della psicologia che della logica, ma senza rigore scientifico, usandola come strumento letterario e suggestivo:
- N. è un filosofo a metà, anche se le sue doti intuitive sono filosofiche e non artistiche, nel senso che coglie l'universale e non si ferma al particolare;
- N. scrive troppo: non ha saputo dosare le proprie energie, si è bruciato troppo presto, sopraffatto dall'ebbrezza dionisiaca; egli fu un autentico homo scribens; lui che fu un dissacratore, non ha saputo dissacrare l'attività di scrittore; che senso ha parlare della follia, del dionisiaco, parlare contro ogni astrazione e poi consumare la vita nello scrivere, nella commedia, nella non vita; e in effetti N. visse come un asceta (l'impulso egoistico ad affermarsi contro gli altri, l'ira, l'invidia e le altre passioni non sono testimoniate in ciò che conosciamo della sua vita; anche Zarathstra è un asceta;
- N. parla troppo di sé, si mette a nudo se stesso;
- si occupa dell'attualità, lui che che si coinsiderava un filosofo zeitlos (senza tempo); N. è l'antipolitico per eccellenza e se interviene nella mondanità lo fa per vanità, per la sua presunzione a vederci meglio degli altri... qui però i risultati di pensiero sono di rango inferiore; l'attuale in N. è l'aspetto meno rilevante del suo pensiero;
- ricerca a tutti i costi dell'originalità, tipico vizio della modernità, che lo porta ad affermare il paradossale;
- modesti sono certi suoi bersagli polemici (Strauss);
- ha distrutto la Germania come mito culturale, ma per polemica contro i tedeschi ha elogiato i francesi, spesso personaggi di scarsa importanza.

Questi attacchi di Colli non devono ingannare, non sono una interpretazione. Nietzsche è il solo contro cui abbiano senso gli attacchi. Per poterlo fare bisognava porsi al suo livello, e Colli lo ha fatto.
Molto severa è la critica è la critica alle deviazioni dell'immagine dell'uomo integro, che Nietzsche stesso ha proposto nei suoi scritti; quando Nietzsche dimentica il suo essere aristocratico, antico, per presenarsi invece con i vizi tipici della modernità. Per comprendere ancora meglio il giudizio di Colli conviene leggere questo aforisma Il modello dell'integrità (in Dopo Nietzsche, pp. 199-201): “L'uomo moderno è spezzato, frammentario. Una vita integra gli è preclusa, qualòunque sia il paese in cui vive, l'educazione che ha ricevuto, la classe sociale cui appartiene. Egli avverte come una fatalità questa frattura, irrimediabile, sin dal principio, se ha la capacità di avvertirla. L'individuo e la collettività si sono allontanati con il trascorrere dei secoli, lungo cammini divergenti, e continuano perciò ad allontanarsi. Ciò che la collettività si attende dall'individuo, presuppone in lui, è sempre diverso da quello che egli scopre in se stesso come autentico, sorgivo. E chi è qualcosa di più che una formica, chi vuol lasciare dietro di sé una traccia durevole tra le apparenze, il suo strascico, di cometa o di lumaca, viene frantumato dal mondo umano, non dalla sua ostilità, ma semplicemente dalla sua estraneità, dalle sue regole, dai suoi comportamenti, dalle sue consuetudini. Nella collettività l'espressione dell'individuo non riecheggia, non rifulge più, è perduta l'armonia del mondo antico.
Negli ultimi due secoli l'apparizione di una grande personalità si accompagna al quadro di un'esistenza tragica, quando non intervenga un temperamento accomodante o vile a preservare l'iindividuo. La lista sarebbe lunga. Nietzsche è un esempio clamoroso, emblematico, di questo destino. Ed eccezionale è il suo pudore, la lotta temeraria, disperata, di chi si sente destinato a soccombere, eppure tenta di mascherare la sua sorte. Nietzsche vuole una vita integra, e vuole mostrarsi come integro. In questo è “antico”: giudica degradante rivelare, esibire la vita spezzata come tale, e non permette a nessuno di pensare che l'esistenza di chi parla al mondo, come fa lui, nasconda un fallimento. Qundo la dilacerazione nondimeno erompe, Nietzsche sa presentare l'effusione, la rottura degli argini, come menzogna poetica. Ma questa maschera della pienezza, la commedia dell'integrita, è insostenibile, favorisce il compimento di ciò che vuole celare, la dissoluzione della persona.
Cosa importa d'altronde se quell'integrità che lui proclmava non si è realizzata nell'uomo Nietzsche? E certo la curiosità pettegola dei nostri contemporanei, che si è gettata avidamente sulla disgregazione dell'uomo, non è riuscita a sminuire per nulla l'espressione di questo individuo, ciò che lui mise fuori di sé, sopra di sé. Poiché, in un mondo che stritola l'individuo, Nietzsche è stato capace di farci cedere l'individuo non piegato dal mondo. Questo risultato lo raggiunge in un'epoca che si è compiaciuta – e il compiaciento oggi è anche più forte – di mostrare la vita spezzata, l'individuo fallito. Se la persona di Nietzsche è stata infranta, ciò non dimostra nulla contro di lui. In cambio egli ci ha lasciato un'immagine diversa dell'uomo, ed è con questa che dobbiamo misurarci noi”.
Valeva la pena di riportare per esteso quest'aforisma; non solo per sottolineare l'eroismo nietzscheano, ma anche per la riflessione sul mondo che esso contiene.

domenica 26 febbraio 2012

Nietzsche

Genealogia della morale (1887)

Prefazione

Nietzsche si chiede: in quali condizioni l’uomo è andato inventando i giudizi di valore, buono e cattivo? Quale valore hanno in se stessi? Hanno intralciato o promosso il felice sviluppo umano?

Il valore della morale, il valore del “non egoistico”, dell’istinto della compassione, di autonegazione e di sacrificio, che Schopenhauer aveva rivestito d’oro, divinizzato e trasposto nella trascendenza - diventando valori in sé -, contro questi istinti occorre sospetto e scetticismo. In essi si scorge un pericolo grande per l’umanità, si scorge la volontà che si rivolta contro la vita. Nietzsche vede nella morale della compassione il sintomo più inquietante della nostra cultura europea… un tortuoso cammino verso un nuovo buddhismo, verso il nulla, verso il nichilismo. Questa sopravvalutazione della compassione è qualcosa di nuovo; sulla mancanza di valore di essa i filosofi (Platone, Spinosa, La Rochefoucald e Kant) si erano trovati d’accordo.

Nietzsche è un avversario dello scandaloso infrollimento moderno dei sentimenti. Nasce una nuova esigenza: abbiamo bisogno di una critica dei valori morali; bisogna porre la questione sul valore di questi valori.

Prima dissertazione "Buono e malvagio" "Buono e cattivo"

2. Originariamente si sono lodate, e chiamate buone, azioni non egoistiche da parte di quelli nei cui riguardi venivano compiute, dunque ai quali esse tornavano utili.

Il giudizio di “buono” non procede da coloro ai quali viene data prova di bontà. Sono invece stati gli stessi “buoni”, vale a dire i nobili, potenti, gli uomini di condizione superiore e di elevato sentire ad aver avvertito e determinato se stessi e le loro azioni come buoni.

Il buono non si collega affatto ad azioni non egoistiche e il punto di vista dell’utilità gli è estraneo.

Il pathos della distanza di una superiore schiatta egemonica in rapporto a una schiatta inferiore (ignobile, volgare, plebea) è all’origine dell’opposizione tra buono e cattivo.

5. I nobili si sono sentiti uomini di rango superiore, si sono attribuiti i nomi di eroi, potenti, condottieri.

6. Alla regola che l’ idea di preminenza politica si risolve sempre in un’ idea di preminenza spirituale non fa eccezione il fatto che la casta suprema sia al tempo stesso la casta sacerdotale. Essa per connotarsi sceglie un predicato che ricorda la sua funzione: compaiono i termini puro e impuro [1]. Ma in queste aristocrazie sacerdotali esiste sin da principio qualcosa di non sano, che ha come conseguenza una labilità viscerale, morbosa, una nevrastenia. Qualcosa che è stato molto più pericoloso della malattia che doveva curare. E l‘umanità è ancora ammorbata dalle conseguenze di queste terapeutiche ingenuità pretesche (es.: astensione dalla carne, digiuno, continenza sessuale, fuga nel deserto [2]. In più: la metafisica di preti, nemica dei sensi, atta a impoltronire e a scaltrire, e la conclusiva universale sazietà con la sua radicale terapia, il nulla (= Dio/Nirvana), l’aspirazione a un’unione mistica con Dio

Presso i sacerdoti tutto diventa più pericoloso, anche la superbia, la vendetta, la sagacia, la dissolutezza, l’amore, la sete di dominio, la virtù, la malattia. Tuttavia, questa forma di esistenza pericolosa ha reso l’uomo in generale un animale interessante. Soltanto qui l’anima umana ha acquistato profondità ed è divenuta malvagia.

7. La loro antitesi: i giudizi di valore cavalleresco-aristocratici; essi presuppongono una poderosa costituzione fisica, una salute fiorente, ricca, traboccante… un agire forte, libero, gioioso (guerra, avventura, caccia, danza, giostre).

Perché i sacerdoti sono i nemici più malvagi? A causa della loro impotenza che l’odio cresce in loro fino ad assumere proporzioni mostruose e sinistre [3]. Senza lo spirito degli impotenti, la storia umana sarebbe una cosa veramente stupida.

Come esempio di ciò (di ciò che è stato fatto contro i nobili, i potenti, i signori), ciò che hanno fato gli Ebrei, quel popolo sacerdotale che ha saputo infine prendersi soddisfazione dei propri nemici e dominatori unicamente attraverso una radicale tra svalutazione dei loro valori, dunque attraverso un atto improntato alla più spirituale vendetta.

Sono stati gli Ebrei (portando avanti l’odio dell’ impotenza) ad aver osato il rovesciamento dell’aristocratica equazione (buono=potente=bello=felice=caro agli dèi) in quest’altra: soltanto i miserabili sono buoni.

Solo i poveri, gli impotenti, gli umili, i sofferenti, gli indigenti gli infermi, i deformi, sono ance gli unici devoti, uomini pii, per i quali soli esiste una beatitudine; mentre i nobili e potenti sono malvagi, crudeli e lascivi, empi, ecc.

Il cristianesimo ha raccolto questa eredità.

Con gli Ebrei ha inizio la rivolta degli schiavi nella morale, rivolta che è stata vittoriosa.

8. L’odio giudaico, l’odio più profondo, trasvalutatore di valori, germogliò un amore nuovo, profondo e sublime – non come antitesi all’odio, ma come suo coronamento.

Gesù di Nazareth, redentore, che porta la beatitudine e la vittoria ai poveri, apparente oppositore e dissolvitore di Israele rientra nella grande politica della vendetta, lungimirante, sotterranea, calcolata: il fatto che Israele stesso ha dovuto negare e mettere in croce dinanzi a tutto il mondo (come un nemico mortale) il vero strumento della sua vendetta affinché “tutto il mondo” (tutti i nemici di Israele) potesse senza esitazione abboccare a questa esca [4]. Sub hoc signo Israele, ha trionfato la morale del gregge.

10. Nella morale, la rivolta degli schiavi ha inizio da quando il ressentiment diventa esso stesso creatore e genera valori. Il ressentiment di quei a cui l’azione è negata e si consolano soltanto attraverso una vendetta immaginaria.

Mentre ogni morale aristocratica germoglia di un trionfante , pronunciato a se stessi; la morale degli schiavi dice fin dal principio un no a un “di fuori”, a un altro; e questo no è la sua azione creatrice. Questo necessario dirigersi all’esterno anziché a ritroso verso se stessi, è caratteristico della morale degli schiavi, che ha sempre bisogno e in primo luogo di un mondo esteriore, ha bisogno di stimoli esterni per poter in generale agire.

La morale aristocratica invece agisce e cresce spontaneamente. I “bennati” si sentivano appunto come i “felici”, non avevano bisogno di costruire artificialmente la loro felicità unicamente rivolgendo lo sguardo ai loro nemici.

Notevole contrasto con la felicità degli impotenti, degli oppressi, degli esulcerati da sentimenti velenosi e astiosi, nei quali essa appare essenzialmente come narcosi, stordimento, quiete, pace…

L’uomo del ressentiment è più accorto dell’uomo nobile, questo manca di accortezza, si getta allo sbaraglio sia contro il pericolo, sia contro il nemico; appartiene alle anime nobili quella stravagante repentinità di collera, amore, venerazione, gratitudine e vendetta; e lo sesso ressentiment dell’uomo nobile, quando si manifesta, si esaurisce in una subitanea reazione, che non intossica.

Non poter prendere a lungo sul serio i propri nemici, le proprie sciagure, i propri misfatti, è il contrassegno delle nature vigorose, complete… che sanno dimenticare e risanarsi. I suoi nemici sono quelli in cui ci sia nulla da disprezzare e moltissimo da onorare.

Il nemico dell’uomo del ressentiment è concepito come il “malvagio”, a partire dal quale si fabbrica nella sua immaginazione come sua antitesi un “buono”: se stesso.

11. L’uomo nobile concepisce in anticipo e spontaneamente l’idea fondamentale di “buono” (prendendo le mosse da se stesso e solo su questa base si foggia una rappresentazione del “cattivo”). Il “cattivo” per l’aristocratico è una creazione posteriore, un accessorio, un colore complementare. Il “malvagio” della morale degli schiavi è un vero e proprio atto di un odio insanabile, originario.

Al fondo di tutte queste razze aristocratiche occorre saper discernere la belva feroce, la magnifica divagante bestia bionda, avida di preda e di vittoria [aristocrazia romana, araba, germanica, giapponese, eroi omerici, tutti uguali in questo bisogno].Questa audacia di nobili razze, folle, assurda, improvvisa… la loro indifferenza e il loro disprezzo per la sicurezza, il corpo, la vita, gli agi, la loro terribile serenità e la profondità del godimento in ogni distruzione, in ogni voluttà di vittoria e di crudeltà.

Oggi viene ritenuto come “verità” che il senso di ogni civiltà sia quello di disciplinare con l’educazione la bestia da preda “uomo”, così da farne un animale mansuefatto e civilizzato, un animale domestico: questi istinti di reazione di ressentiment (per mezzo dei quali le razze nobili sono state umiliate e sopraffatte) bisogna considerarli come i peculiari strumenti della civiltà.

Questi depositari degli istinti del ressentiment, costoro rappresentano la retrocessione dell’umanità. Questi strumenti di civiltà sono argomento contrario alla “civiltà” in generale [5].

Nietzsche, preferirebbe cento volte temere e al tempo stesso ammirare, invece che non temere, senza potersi liberare della vista disgustosa dei malriusciti, dei meschini. Non c’è più nulla da temere nell’uomo; l’uomo mediocre ha imparato a sentire se stesso come meta e culmine, come senso della storia.

12. E’ assolutamente intollerabile l’ immeschinirsi e il livellarsi dell’uomo europeo: è il nostro grande pericolo. Nietzsche vorrebbe mantenere la fede nell’uomo, volgere lo sguardo a qualcosa di compiutamente riuscito, di beato, di possente, trionfante; a un uomo che giustifichi l’uomo. Oggi tutto continua a diventare più prudente, più buono, più mediocre, indifferente, cristiano…l’uomo si fa sempre “migliore”. Col timore per l’uomo abbiamo perduto l’amore verso di lui, la venerazione dinanzi a lui, la speranza in lui. La vista dell’uomo rende ormai stanchi: che cosa altro è il nichilismo, se non questo? Noi siamo stanchi dell’uomo.

13. Pretendere dalla forza che non si estrinsechi come forza, che non sia un voler sopraffare, un voler abbattere, un voler signoreggiare, una sete di nemici e di opposizioni e di trionfi… è una pretesa assurda.

Un quantum di forza è un quantum d’ istinti (non bisogna fraintendere pensando che questo agire sia condizionato da un agente, da un “soggetto”). Non esiste un “essere” al di sotto del fare, dell’agire e del divenire; “colui che fa” è fittiziamente aggiunto al fare, il fare è tutto. Imputare l’azione al soggetto è una credenza sfruttata a proprio vantaggio dai deboli. I quali dicono: dobbiamo essere diversi dai malvagi; è buono chi non usa violenza, non reca danno, non aggredisce… come noi che umili e giusti pretendiamo poche cose dalla vita.

Questo travestimento della virtù rinunciataria, silenziosa questa mendacità di fronet a se stessi è propria dell’ impotenza: come se la debolezza stessa del debole fosse un effetto voluto, scelto, un’ azione, un merito.

14. Come si fabbricano gli ideali sulla terra?

  • La debolezza deve essere falsata in “merito”,
  • L’ impotenza che non si prende una rivalsa deve essere falsata in “bontà”;
  • La timorosa obiezione in “umiltà”;
  • La sottomissione dinanzi a cloro che odiano in “obbedienza”;
  • La codardia in “pazienza”;
  • Il non potersi vendicare in non volersi vendicare… fino all’ amore per i propri nemici.

Danno a intendere che sono migliori dei potenti, dei signori della terra, di cui devono leccare gli sputi, non per paura, ma perché Dio ha comandato di onorare l’ autorità. Queste bestie del sottosuolo sature di vendetta e di odio, dicono: noi buoni, siamo i giusti; a quel che pretendono non danno il nome di rivalsa bensì “trionfo della giustizia”.

15. Intanto vivono nella fede, nell’amore, nella speranza: ma di che cosa? Questi deboli, anch’essi vogliono essere i forti, a un certo momento deve venire anche il loro “regno”. Hanno bisogno di vivere otre la morte per potersi rifare di questa vita terrestre.

16. I due valori antitetici, buono e cattivo, hanno sostenuto sulla terra una terribile lotta durata millenni, che continua. Simbolo di questa lotta: Roma contro Giudea. Nessun avvenimento più grande di questa lotta, fino ad oggi. Roma sentì nell’ebreo qualcosa come la contronatura stessa, il suo monstrum antipodico; in Roma si considerava l’ebreo “un provato colpevole di odio contro l’intero genere umano”. I Romani erano invece forti e nobili, come non lo sono mai esistiti sulla terra di più forti e di più nobili. Gli Ebrei viceversa erano quel popolo sacerdotale, del ressentiment par excellence. Nel Rinascimento c’è i risveglio dell’ideale classico, ma tornò a trionfare Giudea con il movimento plebeo della Riforma … e anche con la Rivoluzione francese [il primato del maggior numero]. Come ultima indicazione dell’altra via appare Napoleone: ideale aristocratico in sé; sintesi di disumano e di superuomo.

17.Il filosofo deve risolvere il problema del valore, deve determinare la gerarchia dei valori.


[1] Puro, fin dall’inizio non significava altro che uno che si lava e che si proibisce certi cibi e non si unisce a certe donne.

[2] Isterismo dell’ideale ascetico.

[3] I massimi odiatori nella storia del mondo sono sempre stati i preti, ance i più geniali.

[4] Forza attrattiva e inebriante, stordente, corruttrice, del simbolo della “santa croce”: paradosso spaventoso di un “Dio in croce”.

[5] [E’ paradossale che la ripugnanza di Nietzsche per l’uomo derivi dal fatto che è dell’uomo che egli soffre. Nietzsche pensa in generale, e ha in mente l’umanità secondo lui avviata verso il declino, quanto alla concreta sofferenza non mostra nessun interesse. NdC].

martedì 11 ottobre 2011

Nietzsche Aurora, aforisma 14

Nietzsche, Aurora (1881)

14. Significato della follia nella storia della moralità. Se nonostante quella spaventosa oppressione dell’«eticità del costume», sotto la quale vissero le comunità umane molti secoli prima della nostra èra e ancora in essa in tutto e per tutto fino ai nostri giorni (noi stessi abitiamo nel piccolo mondo dell’eccezione e per così dire nella zona cattiva); se, dico, nonostante tutto questo irruppero sempre, ancora una volta, pensieri, valutazioni, istinti nuovi ed irregolari, ciò avvenne con un accompagnamento che mette i brividi: quasi ovunque è la follia che ha aperto la strada al nuovo pensiero, che ha infranto il potere di una venerabile con­suetudine e di una superstizione. Comprendete voi perché dovette essere la follia? Qualcosa nella voce e nei gesti, così raccapricciante e imprevedibile come gli estri demoniaci del tempo atmosferico e del mare, e perciò degno di un analogo timore e rispetto? Qualcosa che portava il se­gno di un'assoluta irresponsabilità tanto evidente quanto gli spasimi e la schiuma degli epilettici, qualcosa che parve in tal modo caratterizzare il folle come maschera e stetosco­pio di una divinità? Qualcosa che dava al portatore di un nuovo pensiero persino venerazione e tremore di sé senza più rimorsi di coscienza, e lo spingeva a divenire il profeta e il martire di quello? Mentre oggi risulta ancora una volta immédiatamente constatabile che invece di un granello di sale è dato al genio un granello drogato di follia, a tutti gli uomini di una volta era molto più vicino il pensiero che, ovunque esista follia, esiste anche un granello di ge­nio e di saggezza - qualcosa di «divino», come ci si anda­va bisbigliando all'orecchio. O piuttosto, come si andava esprimendo con discreta energia. «Mercé la follia i più grandi beni sono venuti alla Grecia», diceva Platone con tutta l'antica umanità. Facciamo ancora un passo avanti: a tutti quegli uomini superiori che erano irresistibilmente at­tratti ad infrangere il giogo di una qualche eticità e a dare nuove leggi non restò nient’altro, se essi non erano realmente folli, che diventare pazzi o farsi passare per tali; e ciò vale in verità per i novatori in tutti i campi, non soltanto per chi innovava nelle istituzioni sacerdotali e politi­çhe: perfino l’innovatore del metro poetico dovette accre­ditarsi per mezzo della follia. (Da ciò, fino ad epoche molto più miti restò nei poeti una certa convenzione della follia, alla quale per esempio si richiamava Solone allorché pungo­lava gli Ateniesi alla riconquista di Salamina.) «Come si può fare i pazzi, se non lo si è e non si osa sembrarlo?». Di questo terribile ordine di idee erano preda quasi tutti gli uomini importanti della civiltà più antica; una occulta dottrina di stratagemmi e norme dietetiche s'impiantò ulte­riormente al riguardo, accanto al sentimento dell'innocen­za, anzi della santità di una tale meditazione e di tali propositi. Le ricette, per diventare, presso gli Indiani uno stre­gone, presso i cristiani del Medioevo un santo, presso i Groenlandesi un Angekok, presso i Brasiliani un Paje, sono essenzialmente le stesse: digiuni insensati, prolungata continenza sessuale, andar nel deserto, o salire su un monte oppure su una colonna, oppure «stabilirsi in un annoso pa­scolo che guardi su un lago» e non pensare assolutamente a nulla se non a ciò che può portare con sé una convul­sione e un disordine spirituale. Chi osa gettare uno sguardo nello squallore delle più amare e più inutili tribolazioni interiori, nelle quali probabilmente sono andati languendo gli uomini più fecondi di tutti i tempi? Chi osa ascoltare quei sospiri degli uomini solitari e sconvolti? «Ahimè, datemi dunque la follia, voi celesti! Follia, perché possa finalmente credere in me stesso! Datemi deliri e spasimi, luci e tenebre improvvise, terrorizzatemi con gelo ed arsu­ra, quali nessun mortale ha ancora mai provato, con fra­stuoni e girovaganti fantasmi, lasciatemi urlare e guaire e strisciare come una bestia: purché possa trovar la fede in me stesso! Il dubbio mi divora, io ho assassinato la legge, la legge mi tormenta come un cadavere tormenta un uomo vivo; se io non sono più che la legge, sono il più reietto di tutti gli uomini. Lo spirito nuovo che è in tue, donde viene se non viene da voi? Dimostratemi che sono vostro; la follia soltanto me lo dimostra». E anche troppo spesso questo ardore raggiungeva assai bene il suo scopo: in quel tempo in cui il cristianesimo dimostrava assai larga­mente di essere fecondo di santi e di anacoreti, credendo con ciò di dimostrare se stesso, esistevano in Gerusalemme grandi manicomi per santi infortunati, per quelli che ci ave­vano rimesso il loro ultimo grano di sale.

lunedì 11 gennaio 2010

note sull'idealismo

Dopo Kant la filosofia prende una piega decisamente fuorviante. Benché confutato già in anticipo da Kant, nasce l’idealismo, con la sofistica deteriore di Fichte, Schelling e Hegel. Se si eccettua Schopenhauer, il discepolo più fedele di Kant, il più “veritiero” dei filosofi moderni, la filosofia successiva si presenta assurda e delirante.
In parte le colpe sono da attribuire a Kant stesso, il quale, nella Critica della ragione pratica, aveva postulato la possibilità di una “autonomia della ragione” per sostenere la necessità dell’imperativo categorico.
E difatti Fichte parte dall’idea di libertà.
Ora, è proprio questo sentiero che gli idealisti hanno battuto: valicando quei confini che Kant aveva imposto all’intelletto, utilizzano la ragione, in grado secondo loro di accedere all’incondizionato.

Il primo passo è l’eliminazione del mondo come fenomeno di una cosa in sé. La cosa in sé, in quanto in conoscibile, è impensabile, secondo gli idealisti. La conoscenza è ridotta a rappresentazione, giustamente, anche secondo Schopenhauer il mondo è rappresentazione. Tuttavia la rappresentazione non è riconosciuta come una relazione tra soggetto ed oggetto, bensì come un prodotto del soggetto conoscente, in quanto essa è per il soggetto ed è nel soggetto. Dunque se la rappresentazione è un prodotto della coscienza, tutto è coscienza (ragione, spirito).
La cosa assurda è che gli idealisti come Fichte e Schelling, non si preoccupano dell’origine fenomenica (cioè materiale) del dato sensibile, attribuendolo a una immaginazione inconscia.
In pratica, seguendo le indicazioni di Maimon, l’oggetto (fenomeno) non è l’antecedente bensì il conseguente del processo conoscitivo. Vale a dire: l’oggetto è prodotto dal principio della determinabilità, mentre prima nella coscienza è un indeterminato.
La realtà e l’origine del dato non interessa agli idealisti, perché secondo loro se si ammette il fenomeno come origine del contenuto della conoscenza bisogna ammettere una realtà indipendente dal soggetto, quindi la cosa in sé.

E si arriva a dire con Hegel che il reale è razionale e viceversa: il che significa che è reale tutto ciò che io penso come tale. Per Hegel non c’è una realtà da interpretare o ordinare attraverso le categorie (gli schemi formali dell’intelletto); la realtà si costituisce nel momento in cui viene pensata – o per meglio dire: essa è ciò che egli ha razionalizzato e riconosciuto (arbitrariamente) come oggettivazione dello Spirito.
Le conseguenze di questa arbitraria concezione del reale sono nichilistiche (vedi i commenti di Colli).

In Fichte, per esempio, la conoscenza è subordinata alla pratica, secondo cui i progetti razionali dell’uomo devono plasmare la realtà (lo spirito deve plasmare la materia). La conoscenza non ha un fine in sé; la pura contemplazione del mondo non è compito dell’idealista, che invece vuole agire in esso per affermare la sua volontà. Ma è chiaro che la realtà sulla quale si va ad agire è quella stessa che il pensiero si è costruito (da qui la sua presunta coerenza).

giovedì 3 dicembre 2009

Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione

LIBRO QUARTO Affermazione e negazione della volontà di vivere, dopo raggiunta la conoscenza di sé.

La volontà in se stessa è incosciente; è un cieco, irresistibile impeto; ciò che vuole è sempre la vita = volontà di vivere.
La vita è il manifestarsi di quel volere. La volontà è l’essenza del mondo, la cosa in sé, la sostanza interna. La vita, il mondo visibile è solamente lo specchio della volontà.
La volontà è libera, non conosce la necessità, invece il complesso dei fenomeni è necessario. Per quanto sia il fenomeno di una libera volontà, l’uomo non è libero. Ogni atto della persona va attribuito alla libera volontà.
A priori ognuno si ritiene libero, ma per esperienza e meditazione dell’esperienza a posteriori, riconosce che la sua condotta risulta determinata con necessità dall’incontro del carattere con i motivi. L’intelletto apprende le risoluzioni della volontà solo a posteriori. L’intelletto può solo rendere più chiara la natura dei motivi, ma non già determinare la volontà (inaccessibile, insondabile per esso).
L’affermazione di un libero arbitrio è strettamente connessa con il fatto di aver posto l’essenza dell’uomo in un’anima, la quale in origine sarebbe un essere conoscente, pensante, e solo in seguito anche un essere volitivo; mentre, la conoscenza è secondaria, la volontà è l’elemento primo e originario.
Nel corso dell’esperienza l’uomo apprende a conoscere se stesso, il proprio carattere (che è originario, individuale, “empirico”, costante, innato). Quel che l’uomo veramente vuole non lo possiamo modificare né con influenze esteriori né con ammonimenti. Con l’esperienza apprendiamo ciò che vogliamo e ciò che possiamo. La conoscenza il più compiuta possibile della nostra individualità ci indica tutte le sue forze e le sue debolezze: la misura e la direzione delle nostre capacità intellettive e corporee.

La volontà è priva di meta e di scopo. Aspirare è la sua unica essenza.
La compressione della volontà mediante un ostacolo si chiama dolore, l’appagamento felicità.
Ogni aspirare proviene da mancanza, insoddisfazione del proprio stato: essa è quindi dolore, finché non sia appagato, ma nessun appagamento è durevole, anzi non è che il principio di una nuova aspirazione, ecc.
LA VITA E’ DOLORE.
Nell’umana esistenza si riflette l’intimo destino della volontà. L’individuo è gettato nell’infinito spazio e nell’infinito tempo, nel presente, la sua esistenza è un relativo quando e dove, non mai l’assoluto. Volere e aspirare è tutta l’essenza; inestinguibile sete. Ma la base di ogni volere è bisogno, mancanza, cioè dolore, a cui l’uomo è vincolato dall’origine, per natura. E la sua vita oscilla tra il dolore e la noia.
L’ansia per la conservazione dell’esistenza e la propagazione della specie riempiono tutta la sua vita.
La vita dei più è questa diurna battaglia per l’esistenza, con la certezza della sconfitta finale.
La noia, che sempre pronta a riempire ogni pausa lasciata dall’angoscia, subentra quando miseria e dolore concedono una tregua. –Per necessità si ricorre a un passatempo. Principio di socievolezza: gli uomini si cercano benché non si amino. Gli sforzi per blandire il dolore non servono a mutarne l’aspetto. Soddisfatto il bisogno, si ripresenta: come istinto sessuale, appassionato amore, gelosia, invidia, odio, paura, ambizione, avarizia, ecc.

Lo spirito umano non contento delle angosce, delle amarezze imposte dal mondo esterno, si crea per di più, in forma di mille e svariate superstizioni un mondo immaginario… dissipando tempo e forze. Demoni, dèi, santi ai quali tributare sacrifici, preghiere, templi, offerte, pellegrinaggi (è il fascino dell’illusione).
Sono un sintomo del doppio bisogno che spinge l’uomo: verso un aiuto e sostegno; verso un’occupazione e passatempo.

L’ottimismo non solo sembra un pensare assurdo, ma anche iniquo, un amaro scherno dei mali senza nome patiti dall’umanità. Questo mondo è il regno del caso e dell’errore.

Nella natura, in ogni grado della oggettivazione della volontà, necessariamente è una lotta perenne tra gli individui di tutte le specie: in ciò si esprime un intimo contrasto della volontà di vivere con se medesima.
La volontà è intera e indivisa in ciascuno dei suoi fenomeni.

Origine di tutte le lotte: l’ egoismo.
Ciascuno vuole avere tutto per sé, vuole dominare ed ogni cosa che gli si opponga, distruggere. Ogni individuo per quanto infinitamente piccolo, si fa centro dell’universo e considera la propria esistenza e il proprio benessere avanti a tutte le cose. Questa disposizione egoistica, propria di ogni cosa della natura, è la più terribile manifestazione dell’interno contrasto della volontà con se stessa. Questo egoismo si fonda per essenza sul fatto che la volontà si riflette in egual modo in un numero infinito di individui. La volontà è travagliata da un dissidio interiore, di cui la lotta fra gli individui è un’espressione. Quando la volontà di un individuo vuole affermarsi e irrompe nei confini dell’altrui volontà, con la distruzione o con la costrizione, si conosce come ingiustizia.
Modi: violenza, insidia.
Gradi: cannibalismo, assassinio, mutilazione, schiavitù, spoliazione.

Un’azione che non vada a ficcarsi nella volontà altrui negandola, non è ingiusta. Per esempio: negare aiuto in caso di necessità, contemplare con indifferenza chi muore di fame… è bensì crudele e perverso, ma non è un far torto. Si può dire con certezza che chi è capace di tanta insensibilità e durezza, sicuramente saprà compiere anche ogni ingiustizia, non appena può e vuole.

La volontà è libera e indipendente. Tutto ciò che il mondo contiene (male, tormento, limitazione), appartengono all’espressione di ciò che la volontà vuole. Qualunque destino tocchi l’uomo sarà sempre giustizia: dolore e colpa nel mondo si bilanciano. La responsabilità della costituzione del mondo grava su di essa.
Ma l’individuo ha una limitata cognizione delle cose; non vede l’essenza, ma solo i fenomeni: distinti, disgiunti, innumerevoli, contraddittori. Vede il dolore, il piacere; l’assassino e la vittima; chi vive nell’abbondanza, chi muore di fame. E si chiede: dov’è la compensazione? Vede la malvagità, la sofferenza del mondo, ma non riconosce che sono entrambe diverse facce del fenomeno dell’unica volontà. Le crede invece molto diverse e pensa con la malvagità di sottrarsi al dolore.

Colui che si eleva sulla conoscenza procedente dal principio di ragione, comprende l’eterna ingiustizia: intende che essendo la volontà l’in-sé di tutti i fenomeni, l’affanno inflitto o sofferto, la malvagità e il dolore colpiscono pur sempre l’una e identica sostanza. La cosa in sé, ingannata dalla conoscenza avvinta al suo servizio, se stessa disconosce in uno dei propri fenomeni cercando accresciuto benessere, mentre nell’altro produce dolore.

Buono – concetto relativo, indica la conformità di un oggetto con una qualsivoglia determinata aspirazione della volontà. Cattivo – l’opposto.
Colui che non appena ha l’occasione, e nessun potere esterno lo trattiene, è sempre inclinato a commettere ingiustizia.
La sua conoscenza tutta presa dal principio di ragione è prigioniera della individuazione, rimane attaccata alla distinzione tra la sua persona e le altre (=egoista).
Il carattere malvagio, vede gli altri come larve senza realtà; cerca il proprio benessere, indifferente a quello degli altri… eccessiva volontà.
La grande vivacità del volere è già in sé e per sé una perenne fonte di dolore… più spesso la volontà viene ostacolata che soddisfatta.
Ogni appagamento è illusorio, il bene conseguito non corrisponde mai al bene desiderato. La volontà non cessa la sua sete, muta forma ma rimane insanabile martirio.
Il malvagio gode dell’altrui dolore; il giusto si limita a non causare dolore. E’ un giusto che nell’affermazione della propria volontà non arriva a negare quella che si mostra in un altro individuo.
L’uomo buono d’animo non va considerato come un fenomeno di volontà, il quale sia all’origine più debole dell’uomo cattivo, bensì è la conoscenza che in lui governa il cieco impeto della volontà. Il generoso: il dolore che vede negli altri lo tocca quasi come il suo proprio; sente che la distinzione tra lui e gli altri non è così abissale, come invece pensa il malvagio; conosce che la volontà di vivere si estende fino agli animali e alla natura intera.
Guarire da questo errore illusorio (malvagità, egoismo) e praticare le opere dell’amore è tutt’uno. L’egoista resta concentrato sul singolo fenomeno individuale (paure, ansie, pericoli). Nell’animo virtuoso, la conoscenza si allarga a tutto ciò che vive. Il bene di ognuno è il suo bene.
Sulla via che conduce alla redenzione è chi sa ripetere a se stesso la formula del Veda: «questo sei tu!», dinanzi a ciascun essere con cui venga in contatto.

Oltrepassamento del principuim individuationis, attraverso la giustizia, la bontà d’animo: disinteressato amore per gli altri… (fino al sacrificio per gli altri). Bontà, amore, mosse dalla conoscenza dell’altrui dolore, fatto comprensibile attraverso il proprio. Il puro amore (caritas) è per sua natura compassione. Ogni amore che non sia compassione è egoismo. [Per Kant la compassione è debolezza e non virtù]

Dalla stessa sorgente da cui proviene ogni bontà, amore, virtù e nobiltà, si origina anche la negazione della volontà di vivere. L’uomo che non pone nessun divario tra se e gli altri, conosce il tutto, ne comprende l’essenza, e la trova involta in un continuo perire, in un vano aspirare, in intimo contrasto e in perenne dolore. Vede la sofferente umanità, la sofferente animalità e un mondo evanescente. Questa conoscenza diventa un q u i e t i v o della volontà: la volontà si distoglie dalla vita, ha orrore dei suoi piaceri nei quali riconosce l’affermazione della volontà. L’uomo perviene allo stato di volontaria rinuncia, della rassegnazione, della vera calma e della soppressione del volere.
La conoscenza della vanità e della amarezza della vita, si scorge in mezzo ai dolori sofferti, e vorremmo a ogni dolore sbarrare il cammino. Ma gli adescamenti della speranza, la lusinga del presente, la dolcezza dei piaceri, il benessere a cui partecipa la nostra persona in mezzo ai travagli di un mondo doloroso, in balia del caso e dell’errore, ci tirano nuovamente a sé.
Chi guarda oltre il principium individuationis, la sua volontà muta indirizzo, non afferma più la propria essenza ma la rinnega. E’ questo il passaggio dalla virtù all’ ascesi. Non gli basta più amare gli altri; sorge in lui un orrore per l’essere, per la volontà di vivere, per l’essenza del mondo riconosciuto come pieno di dolore. Si guarda di legare la sua volontà a una cosa qualsiasi.
Ogni sofferenza e offesa che a lui viene è accolta gioiosamente, come occasione di dare a se stesso la certezza che egli la volontà non afferma più. Sopporta il dolore con pazienza. Il fuoco dell’ira e della brama non tollera più. Mortifica la volontà nella sua forma visibile, il corpo: digiuno, autoflagellazione.
E la morte, invocata redenzione, è lietamente accolta.
La santità non proviene dalla conoscenza astratta, bensì dalla intuitiva, immediata conoscenza del mondo e della sua essenza. Questo modo di agire, solo per appagare la sua ragione viene spiegato con un dogma, che è indifferente per la sua sostanza.

La materia della storia del mondo è tutt’altra , anzi l’opposto. Non la rinuncia, bensì l’affermazione, in tutti gli individui della volontà di vivere. E qui al vertice supremo della sua oggettivazione, in questo affermarsi appare con chiarezza il suo dissidio interiore. Abbiamo: ora la prevalenza del singolo mediante l’intelligenza; ora la violenza della folla mediante massa; ora il potere del caso nel destino… ma sempre la caducità e nullità di tutti i desideri.

Filosoficamente parlando: il più alto, il più importante, il più significativo fenomeno che il mondo possa mostrare non è chi il mondo conquista ma chi il mondo supera. Solo in chi rinnega quell’avida volontà di vivere, la volontà appare libera ma la sua condotta è opposta a quella comune.

Amore del prossimo, carità, benevolenza, pazienza, sobrietà, continenza, tolleranza – esempi nell’etica cristiana e in quella hindu (astinenza dal cibo animale, donazione del patrimonio, profonda assoluta solitudine, ecc.).

[Come sappiamo già dal terzo libro] nella contemplazione del bello, gli istanti in cui sciolti dal legame con la volontà, che ci tengono sollevati sulla greve aria terrestre, sono i più beati che conosciamo. Da qui possiamo ricavare come deve essere felice la vita di un uomo in cui la volontà, non per brevi istanti, ma spenta del tutto per sempre (eccettuata l’ultima scintilla che regge il corpo). Dopo molte amare lotte niente viene più ad angustiarlo, a scuoterlo.
Le mille fila che ci tengono legati al mondo in forma di sete, paura, invidia, ira, che ci trascinano con assurdo dolore, sono tagliate. Sereno e sorridente guarda le finte immagini del mondo.
Finché il corpo, sussiste ancora la possibilità della volontà di vivere…. l’ ascesi: continua mortificazione della volontà.

I più arrivano alla negazione della volontà dopo che il destino ha inflitto loro un fortissimo dolore. Nell’eccesso del dolore si è mostrato il segreto ultimo della vita, cioè che dolore e malvagità, sofferenza e odio, il tormentato e il tormentatore sono in sé tutt’uno [diversi appaiono secondo il principio di ragione], fenomeno dell’unica volontà che oggettiva il dissidio con se stessa.

Si scorge il nulla di ogni aspirazione, niente viene più desiderato e il carattere si mostra dolce triste rassegnato (esempi di persone che dopo una vita di passioni abbandonano tutto). Ma degno di venerazione appare colui che soffre quando il suo dolore personale considera come un esempio del Tutto.
I miti e i dogmi che spiegano poi questa intuitiva e diretta conoscenza sono indifferenti.

Tuttavia… la sensibilità nella vita o nella rappresentazione poetica: si soffre sempre e sempre ci si lamenta, senza elevarsi alla rassegnazione e fortificarsi – si pensa di aver perduto insieme cielo e terra, conservando solo una lagrimosa sensibilità.

La negazione della volontà di vivere proviene dalla cognizione dell’intimo dissidio della volontà con se stessa e della sua essenziale v a n i t à, che si manifestano nei dolori di ogni essere vivente.
Vera salvezza e redenzione della vita e dal dolore non può essere immaginata senza completa negazione della volontà. Prima di giungere a quel punto, noi non siamo che quella volontà stessa, il cui fenomeno è un’esistenza evanescente, vano aspirare, è l’intero doloroso mondo della rappresentazione, al quale tutti in egual modo appartengono.

La negazione della volontà di vivere è l’unico atto di libertà possibile al fenomeno.
Il suicidio è invece un forte atto di affermazione della volontà stessa. La volontà di vivere nel suicida viene a trovarsi tanto compressa da non poter più svolgere la propria tendenza, allora prende una risoluzione conforme alla propria essenza: la volontà si afferma con la soppressione del proprio fenomeno. Appunto perché il suicida non può cessare di volere, cessa di vivere. Il suicidio arbitraria distruzione di un fenomeno isolato è azione in tutto vana e stolta.
La volontà di vivere è la cosa in sé, nessuna forza può distruggerla; essa può essere soppressa solo dalla conoscenza.

N. B. Schopenhauer, nega il libero arbitrio.
La libertà di negare la volontà non proviene direttamente dalla volontà, ma da un mutato modo di conoscere. Ciò accade quando il carattere è sottratto all’impero dei motivi. Difatti quando il principium individuationis è superato e le idee vengono direttamente conosciute, allora perdono ogni potere i motivi, perché il modo di conoscere si è offuscato.
Questa libertà non si può ottenere con deliberato proposito, essa viene da un più intimo rapporto del conoscere col volere, quindi anch’essa è un atto di libertà del volere. (Dalla Chiesa è chiamata grazia).
[Nocciolo del Cristianesimo: la dottrina del peccato originale con quella della redenzione (affermazione e negazione della volontà). Gesù come simbolo della negazione della volontà. Il cristianesimo moderno: uno scipito ottimismo.]

Lutero nel De servo arbitrio dichiara che la volontà non sia libera, ma all’origine soggetta all’inclinazione al male e che non già le opere ma la fede sola salva. Codesta fede non nasce da proposito ma dall’azione della grazia, senza il nostro concorso. Così anche in Agostino. Saremo salvati senza alcun merito personale.
Schopenhauer concorda e aggiunge: se conducessero alla beatitudine le opere, le quali emanano dai motivi e da meditato proposito, sarebbe allora la virtù null’altro che un sottile, metodico, lungimirante egoismo.

L’etica del sistema schopenhaueriano coincide con i dogmi veri dei cristiani e con le prescrizioni morali dei libri sacri indiani.

Allo stato in cui si trovano coloro che pervennero alla completa negazione della volontà, sono stati dati i nomi di estasi, rapimento, illuminazione, unione con Dio, ecc.
Ma tale stato non può chiamarsi conoscenza, perché non ha più le forme di soggetto e oggetto, inoltre è accessibile solo all’esperienza diretta e non è comunicabile.
Soppressa la volontà è soppresso anche il fenomeno, il mondo, davanti a noi resta il nulla.
In luogo dell’incessante, infinito affanno, agitato impulso, appare quella pace che sta più in alto di tutta la ragione.

Quel che rimane dopo la soppressione della volontà è, per coloro che della volontà sono pieni, il nulla. Ma per coloro in cui la volontà si è rinnegata, questo nostro universo reale, con tutti i suoi soli e le sue vie lattee, è – il nulla.